3.7.09

Il club delle 100 milioni di visualizzazioni


Quanti video sono stati visti in rete più di 100 milioni di volte e qual è il più visto? The Evolution of Dance? Girlfriend di Avril Lavigne? No. Quelli sono i più visti su YouTube, che pur essendo il sito di videosharing più popolare di tutti rimane solo una delle tante piattaforme. Il video più visto in assoluto (nelle sue varie forme) è Crank Dat di Soulja Boy. Più di 350 milioni di visualizzazioni per un fenomeno fortemente localizzato negli Stati Uniti e praticamente sconosciuto da noi. Ed è solo la prima delle sorprese.

Stimolata dall'improvviso e devastante successo del video di Susan Boyle, la Visible Measures ha stilato una classifica dei video che superano le 100 milioni di visualizzazioni, la prima in assoluto, poichè contare le visualizzazioni di un video attraverso diverse piattaforme è una cosa fatta solitamente per misurare le campagna di viral video e quindi un servizio a pagamento. Per farsi pubblicità però la compagnia ha deciso di far scandagliare al suo software, True Reach, tutta la parte di rete che indicizzano (circa 150 piattaforme di video in rete). Il risultato è il club delle 100 milioni di visualizzazioni, area elitaria che ad oggi conta 18 membri e che fotografa quale sia il pubblico del video in rete mostrando cosa sia più guardato e condiviso.

Quello che si capisce in parte già lo si sapeva e in parte no. La maggior parte dei video sono musicali, ben 8 (segno che la musica è il contenuto più universale), poi ci sono 4 trailer cinematografici (di cui due sono film tratti da libri) e solo 3 video user generated e 3 presi dalla televisione. L'unico personaggio ad essere presente due volte (con un video e un trailer) è Hannah Montana e, grande sorpresa, c'è molto poco da ridere!
Molti dei video in classifica ci hanno impiegato anni ad arrivare in quella posizione e altri, come quello di Susan Boyle, ci sono arrivati in pochissimo tempo (e chissà quanto ancora possono crescere), quasi tutti però non hanno avuto tempo e modo di monetizzare un successo che, nonostante la lenta crescita, è stato comunque inaspettato.

Analizzando la classifica più nel dettaglio si nota che, dopo la prima posizione occupata dalla band autoprodotta ed emersa in rete fino a diventare famosa (specialmente per il balletto che è diventato imitatissimo), arriva il trailer di Twilight, sul cui successo è inutile speculare ancora e un video di Mariah Carey (stranamente la prima tra gli artisti noti) che precede la prima clip televisiva, un interessante sketch di ventriloquio che prende di mira i terroristi e che non è difficile immaginare da quale paese sia stato visto e rivisto fino ad arrivare così in alto.
Quinta è poi Susan Boyle (anche se il successo devastante potrebbe fargli scalare altre posizioni in pochissimo) e dopo il videoclip di Leona Lewis in sesta posizione arriva finalmente la (ex?) campionessa di YouTube Avril Lavigne. Dopo Chris Brown c'è, al nono posto, il trailer di The Dark Knight, film che ha goduto di un'hype, un seguito e un interesse internazionale senza precedenti per l'affastellarsi di tantissimi elementi particolari (dal successo del precedente Batman Begins, alla totale revisione del personaggio del Joker fino alla morte di Heath Ledger).

Solo undicesimo (ma primo tra quelli user generated) è invece il video che per molto tempo è stato considerato il più visto di YouTube e che adesso fa avanti e indietro tra la prima e la seconda posizione con Avril Lavigne, cioè Evolution Of Dance, subito seguito dal primo dei due video di Hannah Montana (questa volta un videoclip a nome della cantante, Miley Cyrus, e non del personaggio).
Al 13esimo posto Charlie Bit My Finger... Again, unico rappresentante della categoria tipica di YouTube "so cute it hurts", cioè i video che strappano una risata di tenerezza coinvolgendo solitamente animali domestici o bambini. In questo caso bambini. Se non ne capite il senso o il successo (136 milioni di visualizzazioni) non avete capito chi sono in realtà i naviganti di internet e siete ancora convinti di essere voi un campione rappresentativo.

Al 14esimo posto ancora videoclip, quello di Rihanna, e poi un altro spezzone di Britain's Got Talent quello di Paul Potts, un pre-Susan Boyle arrivato in rete due anni fa e apprezzato per le medesime ragioni sentimental-popolari del primo ma ritornato in auge in scia al successo di Susan. Anche qui c'è un uomo che non sembra pronto per lo show business, intrappolato in un lavoro che non ama e che appare abbastanza grigio ma poi pronto a sorprendere tutti e riscattarsi con il talento del titolo. Curioso come la dinamica drammaturgica del video di Paul Potts non sia molto diversa da quella del video di Susan Boyle, solo meno efficace e precisa.
Al 16esimo posto il sempreverde Harry Potter con il trailer del prossimo film in uscita, seguito da Lezberado uno dei videoblog più seguiti della rete, l'unico capace di arrivare a sfondare la quota delle 100 milioni di visualizzazioni in virtù di un tema ancora più popolare: il sesso lesbico. Chiude la classifica ancora Hannah Montana, stavolta con il trailer del film.


1
Soulja Boy: Crank That
356,300,000
2
Twilight
266,500,000
3
Mariah Carey: Touch My Body
230,200,000
4
Jeff Dunham: Achmed the Dead Terrorist
196,500,000
5
Susan Boyle (Britain's Got Talent)
186,000,000
6
Leona Lewis: Bleeding Love
185,600,000
7
Avril Lavigne: Girlfriend
176,000,000
8
Chris Brown: With You
175,000,000
9
The Dark Knight
172,500,000
10
Alicia Keys: No One
160,300,000
11
Evolution of Dance
147,000,000
12
Miley Cyrus: 7 Things
143,000,000
13
Charlie Bit My Finger... Again
136,000,000
14
Rihanna: Please Don't Stop the Music
122,000,000
15
Paul Potts (Britain's Got Talent)
118,800,000
16
Harry Potter and the Half Blood Prince
104,800,000
17
Lezberado: Revenge Fantasies
103,000,000
18
Hannah Montana: The Movie
100,100,000

da WIRED.IT del 12/05/09

Th Hunt For Gollum rivoluziona i fan film

Si chiama Chris Bouchard ed è il George Lucas dei fan. Come il regista di Guerre Stellari infatti Bouchard è al centro di alcuni dei più importanti progetti cinematografici che stanno cambiando il mondo dei fan film e non sempre in qualità di regista, come George Lucas ha una passione per le grandi saghe e per gli effetti speciali e come lui infine rischia di rivoluzionare il mondo dei fan film (cioè i film che sfruttano saghe molto note, fatti dai fan a proprio uso e consumo, senza scopo di lucro e a budget ridottissimi).
A mettere Chris Bouchard sulla frontiera del cinema dei fan (una frontiera più indpendente degli indipendenti) non sono tanto le soluzioni o le innovazioni tecnologiche messe in campo ma ciò che materialmente ha avuto il coraggio e l'ardire di fare. Con il suo fan film ispirato a Il Signore Degli Anelli, The Hunt For Gollum, il giovane inglese (già parte di altri progetti da fan come Star Wars: Revelations o Born Of Hope) realizza senza dubbio un'opera senza precedenti per qualità, lunghezza e sforzo.

Con 3.000 sterline di spesa (circa 3.500€), radunando ben 160 attori e comparse pronti a lavorare gratis, girando durante giorni festivi nei boschi del nord del Galles, Bouchard ha realizzato un mediometraggio di 45 minuti impressionante per vicinanza ai film di Peter Jackson. Certo nessuno lo scambierebbe mai per un film fatto ad Hollywood, ma lo stesso si tratta di un'opera godibilissima grazie alle meticolosità della ricostruzione e alle tecnologie digitali.
Come Lucas a suo tempo introdusse il digitale nel cinema, così Bouchard grazie ad un uso accurato di tutti quegli strumenti qualitativamente validi e abbordabili per tutti è riuscito a dimostrare a tutti i suoi colleghi fan-filmaker che un altro step in termini di qualità è possibile, alzando di fatto la sbarra. Come ha fatto a spendere solo 3.500€? "Abbiamo comprato solo tutto ciò che non potevamo riutilizzare, prendere in prestito, usare gratis o rubare. Siamo andati davvero all'essenza delle spese" ecco come.

La storia anche non è eccessivamente peregrina. Certo non la si può paragonare con quella imbastita da J. R. R. Tolkien, però immaginare qualche evento che si svolga tra Lo Hobbit e La Compagnia Dell'Anello non è nemmeno troppo difficile per un tolkeniano vero, dato il monte di informazioni che lo scrittore britannico ha vergato nei suoi romanzi e nel compendio di storia della Terra Di Mezzo, Il Simmarillion.
The Hunt For Gollum racconta della caccia che Aragorn e Gandalf danno al Gollum quando scoprono che potrebbe avere informazioni fondamentali su dove sia l'anello. A dar caccia all'orrendo essere ovviamente ci sono anche le forze del male. Tutto nella Terra di Mezzo si sta preparando alla grande guerra.

E i grandi studios? Loro sono contenti. E come se lo sono! I fan film alimentano il passaparola e tengono viva l'attenzione e l'attesa per le altre operazioni commerciali o gli altri film, quelli che uno scopo di lucro invece lo hanno di sicuro come in questo caso Lo Hobbit. Sempre di più infatti gli studios sono pronti a prestare materiale, vestiti, consigli o indicare le location più adatte, tutto quel know how di base insomma che può aiutare altri squattrinati fan a mettere insieme i loro film.

Ma nel caso del Signore Degli Anelli c'è anche un'autorità superiore da consultare. Nonostante le molte cautele e il gran rispetto per avere l'approvazione finale Bouchard si è rivolto direttamente alla Tolkien Enterprise, spiegando loro che il progetto non aveva il minimo fine di lucro. E così è stato. The Hunt For Gollum, nonostante le lodi e i download, non frutterà niente al suo autore e a chi ci ha lavorato. L'obiettivo semplicemente non è quello. Un fan film non è fatto per fare soldi ma per essere fatto. Per entrare nel giro di chi realizza storie intorno ad un universo condiviso di mitologia e passione.
Tuttavia sarebbe naive pensare che non ci sia anche un'idea intorno a cosa possa sevire tutto questo sforzo. Proprio come George Lucas anche Bouchard ha capito e bene che il risultato di un film non si ferma alla sua sola visione e che, specialmente con una distribuzione in rete, può portare vantaggi (o profitti nel caso di Lucas) soprattutto dopo la visione. Nel caso di The Hunt For Gollum, l'idea di Bouchard è di avere un pubblico, cioè di trovare una massa di fruitori grande come non sarebbe immaginabile realizzando un film dal soggetto originale. Un pubblico così vasto da far circolare il suo nome e, magari, consentirgli il salto di qualità per realizzare quel lungometraggio che ha in mente da tempo...

da WIRED.IT del 29/5/09

Terza dimensione e linguaggio videoludico, Coraline porta avanti il cinema

Con idee e trovate fuori dagli schemi arriva una favola classica raccontata nella maniera più moderna
Pupazzoni digitali e trame prese dai videogiochi, spesso l'integrazione tra tecnologie e cinema si riduce a queste due sole possibilità. Fortunatamente poi escono anche film come Coraline che ci ricordano che un altro modo di rimettere in discussione, aggiornare ed arricchire il linguaggio del cinema è possibile.

Il nuovo lungometraggio d'animazione di Henry Selick infatti racconta l'omonima storia di Neil Gaiman utilizzando in più momenti espedienti, trucchi e linguaggi di narrazione nati per raccontare le storie nel mondo (interattivo) dei videogiochi. Selick li prende, li piega, li adatta e li ripropone all'interno di uno strumento non interattivo come un film. Ma non solo.

A prima vista non sembra eppure in Coraline è radicata molta più tecnologia di quanta se ne sia vista nei film degli ultimi anni, solo che è utilizzata con una trasparenza paragonabile forse unicamente a quella di Gondry. Tecnologia nel senso più ampio del termine, dunque sia strumenti per la realizzazione del film (dall'utilizzo molto abile del 3D agli aiuti chiesti al digitale per animare lo stop motion) che linguaggi espressivi nuovi che si appoggiano su mezzi nuovi.

Un racconto filmico e videoludico
Chi innova rompe sempre qualche regola e così ha fatto Henry Selick quando ha deciso di realizzare l'ultima parte del suo Coraline adottando uno stile e una serie di soluzioni visive tipiche del mondo dei videogiochi per raccontare il superamento di una serie di prove da parte della protagonista.

Nel racconto di Gaiman infatti accade che Coraline debba correre contro il tempo per cercare degli oggetti sparsi nella casa e lo debba fare con l'aiuto di uno strumento che le consente di vedere la realtà diversamente, individuando così più facilmente ciò che cerca. Per mettere in immagini e poter raccontare facilmente lo svolgersi di queste azioni, e soprattutto per immedesimare gli spettatori in quel senso di ricerca e superamento dei propri limiti (che è l'essenza stessa del videogiocare), Selick ha allora scelto di usare modalità di racconto da videogioco.

Per scandire lo scorrere del tempo infatti la luna si va parzialmente oscurando con un grosso bottone (elemento ricorrente nel film e idea tipica dei videogiochi), gli oggetti che Coraline deve trovare sono uno in ogni ambiente della casa (una dependance, il giardino, il sotterraneo e via dicendo), per trovarli necessita di un altro oggetto (simile nella funzione all'oggetto magico tipico delle analisi sulla narrativa classica) che le consentirà di vederli e che le viene dato da alcuni alleati. Ogni area prevede anche lo scontro con un'entità messa a sorvegliare l'oggetto, sconfitto il boss dell'area e recuperato l'oggetto quell'area diventa poi monocromatica per indicare come sia stata "completata" e quindi non più d'interesse ai fini della risoluzione dell'obiettivo finale.

Come nei videogiochi dunque esiste un "mondo" preciso, confinato e delimitato in zone (la casa, comprensiva di stanze interne, alcune dependance e un giardino anch'esso ben delimitato) nelle quali si può svolgere l'azione, esiste un aiutante vivo (il gatto) e uno inanimato (un visore che consente di vedere diversamente la medesima realtà in modo da individuare ciò che altrimenti sarebbe nascosto), esistono dei nemici di primo grado e poi uno più grande da affrontare nella casa (l'ambiente principale) una volta entrati in possesso degli oggetti nascosti in ogni area. Infine esistono dei personaggi da andare a trovare che possono dare degli indizi utili alla vittoria.

La forza di Selick è però nell'aver preso queste dinamiche ed averle perfettamente integrate nel racconto di modo che non siano intellegibili solo ai gamers ma anche a chi non ha mai preso in mano un videogioco. Il suo racconto di quella serie di prove finali è comprensibile a tutti proprio perchè si ispira e usa quegli elementi del mondo del racconto videoludico che sono i più universali e che costituiscono l'evoluzione moderna di modalità eterne di racconto.

Un 3D da cui imparare
La terza era del 3D (forse quella definitiva dopo tanti fallimenti) è cominciata e ancora non avevamo visto un film con una bella terza dimensione, un film che non solo ci regalasse immagini interessanti in 3D, ma che anche sapesse farne un uso funzionale e, in una parola sola, "utile"! A farlo è arrivato ora Coraline.

Gli avversatori della nuova tecnologia potranno andare al cinema e rendersi conto da soli se la terza dimensione potrà o meno avere un futuro al cinema. Il 3D di Coraline infatti non è lo stato dell'arte o un punto di arrivo ma qualcosa di molto buono che serve a dare un'idea di ciò che si può fare, un abbozzo per iniziare un discorso importante.

Le differenze con il passato sono innanzitutto tecniche perchè Coraline in una parola si "vede bene", cosa tanto semplice e scontata quanto finora poco vista (se si esclude lo spottone tecnico Viaggio al centro della Terra 3D), non ci sono imperfezioni, non ci sono errori di prospettiva nè fastidi per gli occhi, il 3D è invisibile e non invadente.

Oltre a non infastidire però la terza dimensione viene qui utilizzata per dare corpo e strutturare una sostanziale differenza tra i due mondi nei quali si svolge il film (quello reale e quello "dietro la porta chiusa") dotati appunto di profondità diverse e quindi, a livello inconscio, fortemente separati.

Inoltre Selick sebbene non faccia mai uscire oggetti dallo schermo si diverte ogni tanto a sfruttare in pieno il concetto di "profondità" e lo si vede bene nelle scene del tunnel che collega i due mondi, un lungo cordone che appunto si "allunga" in profondità avvantaggiandosi dell'effetto degli occhiali. Sono dettagli ma che danno un senso ad una tecnologia che può ancora migliorare molto ed essere integrata anche di più.

Non abbiamo ancora le parole e i termini adatti ad analizzare il cinema 3D e dobbiamo anche capire quale effetto una maggiore profondità possa avere sul coinvolgimento degli spettatori nel momento in cui è usata con invisibilità, cioè è usata senza che lo spettatore se ne renda conto, ma adesso sappiamo che Coraline è un buon punto da cui partire.

da MYMOVIES.IT del 16/6/09

Coraline tra videogioco e film

Una volta era considerato un insulto dire di un film che "somiglia ad un videogioco", oggi non più. A dimostrarcelo arriva da venerdì nelle sale (in 3D e non) Coraline, l'ultima perla di animazione in stop motion (la tecnica che fa muovere sullo schermo pupazzi di plastilina) di Henry Selick, il regista diventato noto con un altro gioiello animato: Nightmare Before Christmas.
Il film e l'omonimo videogioco (già disponibile per Playstation 2, Wii e Nintendo DS) sono stati realizzati di pari passo tenendo conto l'uno delle esigenze dell'altro. Ma lungi dall'aver condizionato la qualità e la godibilità dei due prodotti, una simile integrazione li ha invece arricchiti, portando un coinvolgimento da vero film al gioco e idee originali al racconto del film.
La storia di Coraline viene dall'omonimo racconto di Neil Gaiman e gira intorno ad una bambina insoddisfatta come molte dai genitori, a suo dire grigi e poco attenti alle sue esigenze, che nella nuova casa in cui la famiglia ha traslocato trova una porta per un altro mondo speculare a quello reale ma dove tutto è come lei vorrebbe. Almeno apparentemente.
Coraline è quindi prima di tutto un racconto e chi non ha mai toccato un videogioco non si accorgerà probabilmente delle novità. I più smaliziati invece non potranno fare a meno di notare come la storia segua spesso le regole dei più noti videogiochi di ruolo. In particolare nella parte finale, quella in cui la bambina deve risolvere delle prove e recuperare degli oggetti in una sfida contro il tempo per liberare i genitori, ci sono molte idee tipiche dei videogame come gli schemi da "completare" sconfiggendo un nemico che li sorveglia, oggetti magici da utilizzare per la soluzione delle prove e una rigida divisione in aree.
Coraline però è solo un primo assaggio di questo tipo di contaminazione aspettando Avatar. L'attesissimo nuovo film che James Cameron ci porterà nella prossima stagione a ben 12 anni di distanza dai fasti di Titanic, è stato infatti realizzato in parallelo all'omonimo videogioco e con idee ancora più radicali. La collaborazione tra i team creativi del film e del gioco è stata talmente stretta che addirittura è durante la presentazione del gioco (e non del film) all'annuale fiera mondiale dei videogame di Los Angeles che il regista ha rivelato le prime attesissime (e per ora uniche) indiscrezioni sull'ambientazione e la possibile trama fantascientifica della pellicola.

da LA GAZZETTA DELLO SPORT del 17/6/09

Il film corale oggi è Crossing Over

Un problema, tanti punti di vista non approfonditi ma messi in relazione
L'America non ha gli operai inglesi di Ken Loach, non ha i poveri disperati dei fratelli Dardenne o i criminali di periferia del cinema francese, ma più di tutti ha gli immigrati. Una realtà con la quale il paese si confronta da decenni e che costituisce la vera frontiera del cinema sociale negli Stati Uniti.
I derelitti che tentano viaggi impossibili per sconfinare e diventare fuorilegge (ma in America!) cercando di sfuggire ad una povertà asfissiante sono però solo una parte del cuore di Crossing over, film corale che, come tipico del cinema più recente, intende affrontare un problema non attraverso la proposizione di un punto di vista ma attraverso la presentazione della sua "profondità" cioè delle diverse forme che può assumere.
Kramer sceglie a tale scopo la forma del film di gruppo (solo Eastwood per raggiungere il medesimo scopo poteva osare un doppio film con due punti di vista diversi), un genere che contrariamente agli esempi passati sempre di più per Hollywood sembra adatto a descrivere l'attualità. Invece che affrontare sentimenti il film corale di oggi affronta problemi sociali, il senso così non scaturisce più dalle parole che si pronunciano ma dal diverso rapporto che le storie hanno tra loro.

Chi e perchè oggi sogna di diventare americano?
Non siamo di fronte ai complicati puzzle che Arriaga ha spesso messo in scena assieme a Inarritu ma più dalle parti delle molte storie collegate anche da un filo blando come abbiamo visto in Crash, in Traffic o per fare un altro esempio recente in Look both ways.
Crossing over ci mostra diversi personaggi di cui solo due americani per davvero (Harrison Ford e Ray Liotta) intenti a cercare di diventare americani. In questo senso è un film su un processo, su un mutamento di condizione, quella stessa condizione che per decenni i cittadini statunitensi hanno esaltato come massima aspirazione per chiunque ("Bisogna tener duro figliolo finchè non sarà passata questa mania della pace e bisogna lottare perchè dentro ogni muso giallo c'è un uomo che sogna di diventare americano" diceva un alto ufficiale di Full metal jacket). La terra delle opportunità forse è ancora tale (e la solennità della cerimonia di giuramento del finale sembra suggerirlo) ma entrare a far parte di chi quelle opportunità può averle è sempre più difficile.
C'è chi inganna, chi compra, chi uccide e chi rischia di essere ucciso per diventare americano e anche chi non si cura del vantaggio che gli piove in testa. Con quest'idea di paesaggio composito Wayne Kramer (anche sceneggiatore) intende parlare di integrazione, di globalizzazione sempre maggiore e soprattutto di post 9/11. Un tema ha molte applicazioni e problematiche diverse e sebbene non sia possibile affrontarle tutte in profondità il film corale si propone di mettere sotto gli occhi dello spettatore la varietà dello spettro di situazioni, di toni e di esiti. Una storia può fare da metafora, da paradigma, ma più storie cercano di avvicinarsi alla realtà dei fatti.

La coralità è la società americana
Per Crossing over il modello del film corale sembra più adatto che mai poichè la società americana stessa è corale, è cioè composta di realtà alle volte distanti anni luce non solo per reddito e stile di vita (cosa che capita anche negli altri paesi) ma per provenienza, etnia, valori e obiettivi di vita. Come sarebbe possibile raccontare i problemi di ingresso nel paese con una storia se le eventualità e gli elementi di crisi sono così tanti e così diversi?
Non sfugge a nessuno infatti come il giovane che si finge esponente religioso della chiesa ebraica riceva l'aiuto della sua comunità per cercare di aggirare il sistema e come la giovane musulmana colpevole di aver confessato di "comprendere" le motivazioni dei dirottatori dell'undici settembre in un tema scolastico invece venga dileggiata da tutti senza ricevere l'appoggio di nessuno. Non è un caso che ancora una volta dei messicani muoiano nel silenzio del deserto tentando viaggi impossibili mentre i più ricchi tentino di speculare sull'ingresso di belle ragazze e importanti famiglie mediorentali non sappiano lasciare a casa alcune tradizioni non gradite nei paesi occidentali.
Da questo crogiolo emerge lo specifico di Crossing over rispetto al resto del cinema corale: non la volontà di mostrare un gruppo unico e coerente di storie che corrono verso il medesimo punto (che è quello che accade nei film di Altman o di Anderson) ma trame che da un punto unico partono per andare in direzioni diverse e che non si incontreranno mai, come le comunità che compongono gli Stati Uniti, talmente lontane da non incontrarsi. Non hanno rapporti reciproci i ricchi coreani e i poveri messicani, non sono come i musicisti country di Nashville, eppure condividono il medesimo problema. Solo che chi ha avrà sempre di più e chi non ha avrà sempre di meno.

da MYMOVIES.IT del 26/6/09

Transformers vs. Terminator - Io sto con i robot di Skynet

Non fatevi ingannare! I T-800, Skynet e i T-600 di Terminator Salvation potrebbero ad una prima visione somigliare agli Autobot e i Decepticons di Transformers: La Vendetta Del Caduto ma in realtà sono completamente diversi, due visioni opposte della fantascienza. E io sto con i Terminator!

Venerdì esce in tutta Italia l'attesissimo secondo capitolo della trasposizione cinematografica di Transformers già serie animata e prima ancora linea di giocattoli (secondo un'evoluzione del prodotto culturale da giocattolo a cartone a film tipica dell'industria giapponese) che riporta al cinema la visione di Michael Bay e dell'industria ludica della fantascienza robotica.
Rispetto al primo film ci sono più botti, più esplosioni, più robot, più effetti, più scene d'azione e meno umani che corrono sullo sfondo mentre i giocattoloni se le danno di santa ragione. Aumentano i Transformers e cambia di poco il target del film, rivisto verso il basso probabilmente a seguito delle indagini di marketing che hanno mostrato l'alto gradimento del primo film presso i bambini. Il delicato equilibrio tra commedia, azione, racconto e storia che aveva fatto del primo film una sorpresa qui salta totalmente. L'idea è distruggere tutto il distruggibile per 140 minuti. Piramidi d'Egitto comprese.

Curiosamente però i Transformers arrivano nei cinema mentre ancora in alcune sale adiecenti verrà proiettato Terminator Salvation, altro film di fantascienza robotica ma dalla visione opposta.
I due film di McG e Michael Bay infatti possono essere accomunabili per genere, ritmo, azione e carattere (entrambi film di alto profilo e intrattenimento hollywoodiano) e possono anche avere il medesimo pubblico ma mostrano due modi decisamente diversi di immaginare, sognare e teorizzare il rapporto dell'uomo con le macchine intelligenti.

I Transformers infatti sono fantascienza solo per approssimazione, in realtà non immaginano scenari futuri ma trattano di idee fantastiche. Non ipotizzano nemmeno sofisticate tecnologie che cambino la vita dell'uomo (come tipico della fantascienza) perchè Autobot e Decepticons sono in tutto e per tutto trattati e mostrati come esseri viventi e non come macchine senza cuore, non hanno nulla di realmente tecnologico se non quello che appare. Non a caso sono alieni e non prodotti dell'uomo.
La metafora di Transformers è tutta umana. I robot giganti che combattono tra di loro hanno movenze umane, reazioni umane e problemi umani. Quando prendono un colpo in volto la loro mascella si muove o si rompe come fosse umana e se sono a terra perdono olio come fosse sangue. In questo i Transformers sono più simili agli animali antropomorfi delle favole che a veri modelli fantastici di tecnologia. Non ci fanno sognare di un nostro possibile futuro.

Al contrario tutto l'impianto di Terminator è basato su ipotesi fantastiche ma tecnologiche. Le macchine del futuro di McG sono iperboliche e improbabili come qualsiasi prodotto di fantasia ma non cercano di essere uomini (anche se alcune li imitano per ingannarli) anzi! Tutto Terminator si basa sulla contrapposizione tra uomini e macchine, sul fatto che gli uomini lottino per mantenere viva la loro razza e per essere i padroni del proprio pianeta mentre le macchine impongono il loro dominio.
Come quasi tutto il cinema robotico ogni Terminator, anche il peggiore della saga (cioè il terzo), ci parla del rapporto che abbiamo con la tecnologia, di cosa la tecnologia possa significare nella nostra vita oggi e delle paure che abbiamo per il domani. Di questo non c'è traccia in Transformers.
Per dirla in altre parole se agli Autobot e ai Decepticons si sostituissero razze alieni viventi non cambierebbe nulla nella trama del film. Perchè loro sono i protagonisti assoluti del film e come tali sono antropomorfi (che è un must di ogni film hollywoodiano) mentre i robot di Terminator Salvation sono il nemico dei protagonisti, la loro controparte.

Michael Bay si sforza in ogni modo di dirci che i Transformers sono come noi e i loro nemici sono nostri nemici solo perchè siamo alleati, non perchè si contrappongano direttamente agli umani. Al contrario quando John Connor dice per radio "...sono John Connor e se ascoltate questo messaggio siete parte della resistenza" spiega che i robot non sono noi, sono un'altra cosa, noi siamo lo spirito e loro la materia e per questo combattiamo. Questa è fantascienza!

da WIRED.IT del 27/6/09

Trasformati dai Transformers

Il filmone americano di questa estate gira intorno a robottoni giganti che se le danno di santa ragione. Lo sanno tutti, dai bambini (già esaltatisi nel 2007 per il primo film della serie) ai ragazzi cresciuti con gli omonimi cartoni degli anni '80 che continuano a divertirsi con l'azione forsennata del regista Michael Bay (specialista in esplosioni, ralenti e belle donne), ma lo sanno bene soprattutto gli attori.
Infatti, nonostante la presenza di nomi di richiamo (ma all'epoca del primo film non lo erano affatto) come Shia LaBouef e Megan Fox, il cuore di Transformers 2 (nelle sale italiane dal 26 giugno) sono i robot: "Quando pensavamo di non aver dato il massimo in una scena ci dicevamo: <>". A parlare è Ramon Rodriguez (nel film interpreta il compagno di stanza del protagonista), esordiente nella saga dei robot Hasbro, mentre a ridere riconoscendosi in questa battuta ci sono Josh Duhamel e Tyrese Gibson, militari all'ombra dei giocattoloni giganti (e digitali) già dal primo film. Attori non molto noti per un film che di certo non ha velleità intellettuali eppure, come tipico di Hollywood, professionisti di alto livello.
Il giovanissimo Ramon Rodriguez ha già girato il suo secondo film, un thriller al fianco del veterano Denzel Washington ed è cresciuto nel rigoroso mondo delle serie tv americane (principalmente The Wire), mentre Josh Duhamel è un volto reso noto da 5 stagioni della serie Las Vegas e infine Tyrese Gibson è un vero intrattenitore a tutto tondo.
L'attore di colore già noto per 2 Fast 2 Furious non si pone limiti e racconta con fierezza il suo sogno americano dalle borgate al successo non solo cinematografico. In queste notti a Roma ha girato per discoteche facendo ascoltare il suo ultimo singolo hip hop (Take me away) per testare le reazioni del pubblico e girare un videoclip, forse interpreterà un eroe dei fumetti (Luke Cage) ma intanto il 5 Agosto lancia Mahyem, un fumetto scritto da lui che già nella sola prevendita ha fatto segnare proventi record: "I limiti esistono nella tua testa. Se li assecondi è solo un problema tuo".

da LA GAZZETTA DELLO SPORT del 12/6/09

RECENSIONE Transformers - La Vendetta Del Caduto

I Decepticon non sono stati totalmente sconfitti, gli Autobot collaborano con il governo ma non hanno la più completa fiducia, Sam deve andare al college per avere una vita normale ma gli eventi non glielo consentiranno. Tutto convergerà intorno al ritrovamento di un frammento cruciale alla distruzione o al salvataggio della Terra da parte degli ultimi esponenti (ancora in vita) del pianeta di provenienza dei robottoni giganti.

Tanto il primo film era sembrato incredibilmente azzeccato per come riusciva a moderare tutte le componenti solitamente esagerate del cinema di Michael Bay (azione forsennata, comicità, trama e valori maschili) quanto ora tutto quanto è mescolato senza guardare al dosaggio. Per semplificare si potrebbe dire che Transformers: La Vendetta Del Caduto è un film di due ore e mezza nel quale per almeno due ore non si vede altro se non grossi robot digitali che spaccano tutto (compresi se stessi) mentre di sfondo alcuni piccoli umani fuggono e si dicono parole ininfluenti (mai personaggio fu tanto inutile in una trama quanto quello di Megan Fox).

In realtà ciò che sembra essere accaduto è che la produzione si è accorta che il target che più ha gradito il primo film è stato quello infantile, per questo secondo allora ha abbassato l'asticella, ha inserito più scene spettacolari e personaggi-macchietta. Il risultato è allora un film, per come è orchestrato il racconto, non è troppo lontano dal cinema della Disney.

Scompare del tutto ogni velleità di riflessione sul rapporto tra l'uomo e la tecnologia e i Transformers qui diventano metafora dell'indicibile (o immostrabile) umano. I loro corpi metallici vengono malmenati, dilaniati, squartati e sanguinano (sic!) come corpi umani non potrebbero mai fare in un film adatto a tutte le età. Il metallo spesso sembra rompersi e squarciarsi seguendo le regole della carne, questo però, lungi da essere un espediente interessante, si risolve solo in una crudezza di facciata che non salva lo spettatore dalla noia infinita di un destruction derby lungo e inutile nel quale le pochissime scene tra umani fanno rimpiangere il metallo che si dilania.

da MYMOVIES.IT

Ascolto. Clicco. Compro. E' la nuova distribuzione

Capita spesso di avere in testa una canzone che ronza e volerla furiosamente ascoltare. Ecco, su quest'impulso all'ascolto (e magari all'acquisto) si gioca la partita fondamentale della nuova promozione musicale. Voglio, clicco, compro, ascolto.
Come spesso capita però le etichette musicali hanno recepito il cambiamento in ritardo lasciando per anni campo libero alla pirateria. Solo negli ultimi tempi la situazione è cambiata grazie ad iniziative promozionali sui social network e i siti più importanti della rete.
E' posizionato in prima linea MySpace Music, un servizio assolutamente rivoluzionario (presto attivo anche in Italia) che consente di ascoltare qualsiasi brano gratuitamente in streaming. Ascoltare senza possedere. Se poi si desidera anche possedere con click si arriva ad un qualsiasi music store, si paga e si scarica.
Da noi la rivoluzione del diritto all'ascolto gratuito (che poi in realtà è pagato dalla pubblicità che compare sulle pagine) l'ha portata per primo Dada, che con il suo Music Movement offre in Italia le medesime possibilità di MySpace Music con un'opzione di acquisto ancora più rapido, perchè non appoggiato a music store esterni.
Allo stesso modo anche YouTube offre lo stesso servizio. Il sito di video più visitato al mondo infatti campa in realtà sulla musica e da qualche mese in sovrimpressione ad ogni video musicale compare un pulsante che consente di soddisfare con un click l'impulso d'acquisto su iTunes. Un business non da poco se si calcola che su YouTube sono musicali 5 tra i 10 video più visti e che, secondo la FIMI, "l’83% degli utilizzatori internet ha guardato un videoclip on line nel 2008 rispetto al 31% del 2006".
E non vanno dimenticati i videogame. Il 76% di chi gioca a giochi come Rock Band o Guitar Hero compra la musica che sente nel gioco. La cosa ha di fatto aumentato le vendite di alcuni brani anche dell'843%. Numeri impressionanti che che hanno spinto alla creazione di edizioni dei giochi "dedicate", come quella tutta sui Metallica. L'attesa però è per il 9 settembre quando toccherà al gruppo più di successo della storia: i Beatles.

da LA GAZZETTA DELLO SPORT del 7/6/09

8.5.09

E Wolverine batte anche i pirati

"Bellissimo! Lo andrò a vedere sicuramente anche al cinema!" così commenta uno dei tanti utenti che hanno scaricato abusivamente Wolverine prima della sua uscita al cinema avvenuta questo weekend, e non deve essere l'unico ad averla pensata così. Il film infatti ha subito incassato bene: circa 87 milioni di dollari nel primo weekend, poco meno di quei 98 milioni che un anno fa fece registrare Iron Man, e in Italia ha toccato i 2 milioni di euro come nel 2003 fece l'omologo X-Men 2.
Eppure Wolverine doveva essere un caso esemplare: era disponibile online in barba al diritto d'autore già un mese fa, mai un film hollywoodiano così importante era stato messo in rete così tanto tempo prima dell'uscita! 30 giorni nei quali i download sono stati tantissimi, ben un milione solo nella prima settimana. Eppure il film incassa bene. Lo fa nonostante il fatto che non sia un granchè e nonostante la paura da febbre suina per la quale tutti sconsigliano di aggregarsi in luoghi chiusi.
Tutto questo ci conferma come, nonostante tutto quello che si dice, la pirateria in realtà non danneggi le sale. Chi sceglie la sala sceglie di uscire di casa, di andare in giro e di fare qualcosa nei luoghi sociali della città, mentre un film piratato semmai è in concorrenza con altri tipi di intrattenimento casalinghi come l'home video.
Ci si chiede allora quanto il danno della pirateria sia imputabile ad essa e quanto al fatto che non esiste un'offerta identica ma legale ad un costo ragionevole. Se quei milioni di download illegali fossero stati invece legali e a pagamento (da sommare ai milioni di biglietti staccati) si potrebbe ancora parlare di perdite per l'industria?

da LA GAZZETTA DELLO SPORT del 06/05/09

J.J. Abrams porta al cinema il suo Star Trek

J.J. Abrams si è fatto il suo Star Trek privato. Non solo ha realizzato l'ultimo film della saga (infinita?) che spinge avanti "l'ultima frontiera" alla scoperta di zone inesplorate dello spazio, ma l'ha resettata a suo piacimento.
È questa la cosa più evidente dopo la visione del nuovo Star Trek che invaderà le sale italiane (in contemporanea mondiale) dall'8 maggio, l'azione è ambientata prima della serie classica e racconta della vita giovanile di Kirk, Spock, McCoy e tutto l'equipaggio storico. L'accademia, i primi incarichi, le rivalità ecc. ecc. Ma non pensiate che Abrams si sia adeguato alla lunga storia e alle esigenze di "coerenza" con tutto quello che è stato già raccontato. Il genio dietro Lost si è fatto il suo Star Trek con le sue regole, i suoi caratteri, i suoi eventi traumatici e i suoi personaggi.

Il film si apre subito con un viaggio nel tempo che modifica la storia, dunque tutto quello che vediamo è una realtà alternativa nella quale accadono cose diverse da quelle già raccontate proprio a causa di quell'evento iniziale. È la realtà alternativa di J.J. Abrams. Benvenuti.
Non deve stupire allora come più che somigliare ad un classico film di Star Trek quest'ultimo abbia più le caratteristiche che hanno reso famoso Lost: suspence, azione forsennata (si comincia a correra all'inizio e non ci si ferma più!) e un contesto misterioso e fascinoso che avvince. Il film di J. J. Abrams è andato oltre ogni più rosea aspettativa, anche più in là di quanto si sperasse quando, a novembre, l'autore era venuto a Roma per presentare 20 minuti in esclusiva del film ed era stato possibile avvicinarlo per qualche battuta.

In quell'occasione la cosa più strana (e che poi dopo la visione del film si è rivelata effettiva!) fu il modo in cui il regista rimarcava che non intendeva accontentare i fan della serie con il suo film: "Quando abbiamo messo in rete la prima foto dell'Enterprise tratta dal film qualcuno ha detto che faceva schifo perchè i motori erano troppo grossi. Ora, io lo so che esistono i puristi ma a me la cosa che mi interessa più di tutte è fare un film d'intrattenimento e non una cosa per fan che tanto avranno SEMPRE qualcosa da ridire".
Da come parla già lo si capisce ma poi è lui stesso a precisarlo: non è per niente un cultore della serie e ha accettato questo ruolo solo perchè la trama del film lo intrigava davvero. Ecco dunque il perchè della sbandierata poca attenzione ai fan (ma in realtà non è vero, alla sceneggiatura ha partecipato Roberto Orci, uno dei più grandi esperti di continuity trekkiana e il film è pieno di riferimenti e chicche che colgono solo i cultori).

Mettere nell'angolo J. J. Abrams decisamente non è facile. Cosa crede che Star Trek sia riuscito ad anticipare e che poi si è realizzato nel nostro presente? "E se ora mi teletrasportassi che ne direbbe?" Direi che se scompare da qui sono sicuro che ricompare sull'isola: "Ahahahahah! Scherzi a parte i communicator all'epoca erano fantascienza ma ora device simili sono all'ordine del giorno mentre cose come i viaggi nel tempo o la velocità curvatura sono ridicoli oggi come allora".

All'epoca dell'intervista non lo si poteva immaginare ma il film completo ha molte somiglianze con tante cose già viste. Ci sono ambienti bianchissimi illuminati come 2001: Odissea Nello Spazio, ci sono stazioni sotterranee che ricordano il progetto Dharma e c'è un pianeta nevoso che ricorda quello di Guerre Stellari eppure già in quella discussione Abrams seppe mettere le mani avanti: "Sono sicuro di essere stato influenzato in qualche modo. Ad esempio le mie scene del bar sono come quelle di Star Wars ma in fondo diverse, lì era un posto alieno mentre il mio bar è più un bar dove andresti anche tu. Alla fine però di Guerre Stellari sono stati fatti 6 film e non riesco a pensare a qualcosa che non abbiano rappresentato: pianeti delle nevi, dei cieli, del fuoco, dell'amore ecc. ecc. Tre di quei film poi sono così pieni di immagini personaggi, alieni, occhi, persone blu... E' impossibile fare fantascienza senza avvicinarsi".

E alla domanda finale su quale possa essere l'appeal di una cosa futurista come Star Trek in un paese passatista e tecnologicamente arrancante come il nostro Abrams ha risposto sicuro: "Credo che la scienza di Star Trek abbia poco a che vedere con la storia o la sua emozionalità. C'è chi lo ama e si appassiona agli effetti o all'idea cliché dell'ultima frontiera, ma poi ciò che io personalmente amo di Star Trek e che penso lo renda diverso da Star Wars è come sia una visione sincera del nostro futuro. Allora un paese più arretrato può avere forse anche più interesse perchè è ancora più fantascienza".

da WIRED.IT del 08/05/09

4.5.09

YouTube cambia

Dopo 4 anni di vita, un numero incalcolabile di video caricati e uno ancora superiore di video visti dagli utenti, dopo cause milionarie per violazione del diritto d'autore, un'acquisizione miliardaria da parte di Google e polemiche a non finire YouTube cambia design e filosofia. A costringerlo, come sempre, gli incassi.
Perchè nonostante sia uno dei luoghi più visitati di tutta la rete e nonostante sia una banca dati video unica, lo stesso YouTube non riesce a fare soldi come dovrebbe. In gergo si dice che non "monetizza utenti", cioè che non trasforma correttamente ogni visita in denaro, cosa decisiva per un servizio totalmente gratuito.
Per monetizzare dunque si cambia design e soprattutto organizzazione interna. Oggi le categorie che fanno bella mostra di sè in home page (e che rispecchiano la filosofia del sito) sono Video, Canali e Community. Tre categorie improntate ai contributi degli utenti. Dal 16 Aprile il sito invece si dividerà in Movies, Music, Show e Video che sarà l'unica delle 4 nuove categorie a racchiudere i video inviati dagli utenti, per il resto si tratterà di materiale considerato "professionale" e autorizzato dai proprietari del copyright. Non cambiano le regole, solo la visibilità che sarà data ai contenuti.
Il motivo del cambiamento è che i video caricati dagli utenti sono croce e delizia del sito. YouTube è grande grazie a loro ma è anche vero che per colpa loro non ottiene la pubblicità che dovrebbe. Eppure ci ha provato: ha messo pubblicità testuale sulla pagina, banner animati, addirittura sovrimpressioni sui video e recentemente anche il "Click To Buy", cioè per ogni video musicale (il contenuto più presente in assoluto) compare la possibilità di andare a comprare la canzone in questione su iTunes.
Tuttavia quale pubblicitario rischierebbe di vedere la propria pubblicità accanto ad un video potenzialmente offensivo, volgare, stupido o anche solo noioso? Niente garanzie, niente contratti. Così ora arrivano in massa contenuti affidabili, autorizzati e sicuri (video musicali, serie tv e film) per permettere un nuovo flusso di denaro e una nuova fase (più adulta) per il video in rete.

da LA GAZZETTA DELLO SPORT del 22/04/09

I blog sono il futuro del giornalismo in State Of Play

Sai, per certe cose servono delle prove!" è il continuo rimprovero di Russel Crowe a Rachel McAdams in State of Play. Il primo è un vecchio leone della carta stampata mentre la seconda è una giovane blogger del medesimo gruppo editoriale (quello del Washington Post) e il rimbrotto citato non è diverso dal mantra che si sente (e si legge) levarsi spesso dal vecchio mondo dell'informazione infastidito dall'audacia e dal successo dei migliori blog. La novità è che nel film di Kevin Macdonald (da venerdì nelle nostre sale) la carta stampata dovrà ricredersi.

Per chi ha dimestichezza con le cose di internet infatti in State Of Play c'è molto di più di una storia di intrigo sentimentale e politico ai piani alti del governo statunitense, c'è tutto il mondo dell'informazione che cambia e lo scontro tra chi è attaccato ai quotidiani e chi predica la religione dell'informazione libera dei blog: "I blog non sono la stessa cosa del giornalismo, mi piacciono, ma sono diversi. E' un po' triste da vedere ma mi sembra che il futuro si trovi tra i giovani giornalisti di internet", così si esprime a parole Kevin Macdonald, ma un necessario corollario a queste dichiarazioni viene da quello che il regista ha messo sullo schermo. Si perchè sarà anche triste vedere un mondo che muore ma è solo il tramonto a deprimere e non certo ciò che gli segue.

State Of Play è infatti il primo film a mettere in scena con grande intelligenza e senza velleità passatiste il divario sociale e culturale che separa le due classi del mondo dell'informazione: carta stampata e blog. Nel film il redattore d'assalto del Washington Post e la compita blogger del gruppo editoriale lavorano a due storie apparentemente separate (un affare di droga il primo e una bega sentimentale del politico Ben Affleck la seconda) che invece si riveleranno intimamente connesse e costringendoli così ad un'inedita alleanza.
Non vi anticipiamo nient'altro di un film teso e ricalcato sul più classico stile del thriller politico all'americana. Ma ciò che sembra davvero innovativo è come si tenti finalmente di portare a tutti quanti la rivoluzione del blogging. Per la prima volta infatti un film di alto profilo e destinato ad un pubblico generalista mette in scena pro e contro dei cambiamenti che internet ha portato e sta portando in uno dei tanti ambiti della produzione dei contenuti.

I giornali sono in crisi e in America l'interrogativo sul loro futuro è all'ordine del giorno, da noi la situazione non è diversa solo che se ne discute meno: "In America leggiamo i blog molto più dei giornali cartacei" dice il regista "Per questo presto moriranno". Macdonald, intervistato sulla questione, rivela quanto fosse importante per il suo film il rapporto tra i due protagonisti, emblemi del vecchio giornalismo e della nuova dimensione in rete più informale, più diretta e più agile.
Siamo sicuri di non anticipare nulla di imprevedibile dicendo che i due nel corso del film impareranno a collaborare come non si svela nulla dell'intricata trama di spionaggio e intrigo politico sottolineando come alla fine ci sarà una nobilitazione del giornalismo in rete. Anche il vecchio leone della carta stampata, inizialmente reticente anche solo a parlare con la ragazzina arrogante che simboleggia la fine del suo mondo capirà come il blogging abbia lo stesso valore del giornalismo cartaceo. Una lezione che è all'ordine del giorno per chi è pratico delle cose di internet ma che forse suona rivoluzionaria alle orecchie dello spettatore comune.

Dunque cos'è per Kevin Macdonald il futuro del giornalismo? "Credo ci sia una precisa differenza tra futuro dei giornali e futuro del giornalismo: il giornalismo può andare su qualsiasi supporto mentre i quotidiani a me non interessano particolarmente". Pensa che il passaggio dalla carta all'online sarà indolore? "No. Sebbene ci siano testate online splendide come l'Huffington Post, che fa vero giornalismo e non a caso ora vuole assumere 50 reporter investigativi, lo stesso credo che i prossimi 10 anni saranno l'era dell'oro per i politici corrotti perchè potranno fare quello che vogliono dato che non ci saranno più giornalisti a svelarne i segreti".
Ad oggi comunque i migliori scoop sulla vita politica, sull'atteggiamento arrogante delle aziende e sulle mille piccole incongruenze nell'agire di chi dovrebbe guidare il paese sono arrivano quotidianamente dalla rete.

da WIRED.IT del 30/04/09

RECENSIONE La Vita Segreta Delle Api

Non ha certo tutte le sicurezze del mondo la piccola Lily che a 4 anni spara alla madre per errore ed è costretta a passare i seguenti 10 anni con un padre che non le vuole bene e non manca mai di farlo notare. Così quando la misura è colma scappa per intraprendere un viaggio alla scoperta delle proprie radici (sulle orme di uno simile fatto dalla madre) assieme alla sua badante di colore proprio nell'anno della firma della dichiarazione dei diritti civili per gli afroamericani. Ad accoglierla in un nuovo alveo familiare saranno tre sorelle di colore che producono miele, ma nonostante il benessere Lily imparerà che una cosa è firmare un pezzo di carta e una cosa è farlo diventare realtà.
Curioso come la prima scena di La vita segreta delle api sia palesemente identica a quella d'apertura di Mean streets. È l'unico punto di contatto tra un film indipendente e dirompente come quello di Scorsese e quest'opera acquietante e rassicurante che si impone di insegnare allo spettatore il suo punto di vista attraverso le piccole pillole di saggezza poetica messe in bocca ai protagonisti (per lo più contadini) e i tanti ricatti emotivi. In questo senso si rivela molto onesta la scelta di un titolo (mutuato dal libro cui si ispira) da documentario scolastico.
È il modus operandi tipico attraverso il quale l'America riflette e tramanda la propria storia al cinema. Non dal punto di vista del suo svolgimento (o da quello di una sua rilettura come siamo soliti fare noi) ma dal punto di vista sentimentale. L'oggetto del film non sono i fatti che portarono alla firma della dichiarazione dei diritti civili nè le battaglie degli afroamericani (al massimo c'è qualche riferimento pop per inquadrare la questione) ma cosa significò emotivamente tutto ciò.
Per arrivare a questo la regista Gina Prince-Bythewood sceglie un cast di star di colore (per lo più cantanti) e fa affidamento solo su di esso. Tutto ciò che il film si propone di comunicare passa attraverso gli attori, non esistono altre possibli soluzioni per una regia totalmente anestetizzata e incantata sui loro volti. Fortuna che a dare uno scampolo di credibilità al tutto c'è Dakota Fanning, che già a 14 anni è uno dei più straordinari volti drammatici che si possano considerare oggi.
Tutto nel film va incontro allo spettatore per confermare ciò che egli già pensa e rafforzarne le idee. Il casting (la matrona in carne, la giovane attivista bella e la sorella debole un po' bruttina ma dal gran sorriso), i personaggi (tutti a senso unico e privi di evoluzione), l'intreccio (che arriva fino all'implausibilità pur di non sorprendere) e i sentimenti in gioco ("Desidero solo essere amata da qualcuno!").
La rilettura hollywoodiana della storia emotiva del paese è anch'essa una forma di racconto archetipico che ha le sue maschere fisse e La vita segreta delle api non se ne fa sfuggire una per raggiungere il suo obiettivo (un sorriso per ogni lacrima) nella maniera più facile e sicura. Annacqua ogni conflitto imprevisto e ammorbidisce anche i momenti più aspri e drammatici annunciandoli per tempo prima di mostrarli, così da coccolare lo spettatore mentre lo rassicura ancora a suon di semplici sorrisi e tenere lacrime.

da MYMOVIES.IT

RECENSIONE Le avventure del topino Despereaux

Tanto tempo fa nel reame di Doremi nasce un topo diverso. Tutti gli altri topi, pavidi e costantemente impauriti, lo chiamano "coraggioso" in realtà Despereaux è solo curioso, talmente tanto da superare la naturale paura che identifica la sua razza. Non è il rischiare di far scattare le trappole per prendere il formaggio o l'avventurarsi nelle stanze degli umani a caratterizzarlo ma il fatto che invece che rosicchiare le pagine dei libri lui le legga, attratto al fascino del racconto.
Tramite questo salto intellettuale capisce cose nuove e si distingue dalla comunità che inevitabilmente lo condanna spedendolo nel regno sotterraneo dei ratti, parenti più infidi, maligni e sporchi dei topi. Lì incontrerà Roscuro, un ratto di nave finito per errore tra i suoi simili di città anche lui per certi versi diverso dagli altri perchè amante della luce.
Le loro avventure si incroceranno cavallerescamente con la storia del regno di Doremi, oscurato dalla morte della sua regina e privato della linfa vitale.
Le avventure del topino Despereaux è una vera favola moderna. Della favola mantiene tutto l'impianto mitologico (i reami dominati da regnanti buoni ma intristiti, le principesse, i cavalieri, i nemici da battere, i tradimenti, le agnizioni e le imprese) ma la contamina con tutto il modo moderno di intendere un racconto. Despereaux sogna di essere come i cavalieri di cui legge le avventure e la sua vita ne ricalca lo stile in una mimesi tra racconto e forma-racconto tipica del postmoderno, allo stesso modo anche il ruolo della principessa è inteso solo a partire da ciò che già sappiamo essere le sue caratteristiche topiche per arrivare ad altro e più di tutto infine si tratta di un racconto di affermazione intellettuale e non fisica.
Per tutto questo alla fine il primo lungometraggio in computer grafica della Universal parla dritto al cuore degli adulti o quantomeno dei giovani adulti anche se si propone palesemente come un prodotto per bambini. Siamo lontani dai doppi livelli di lettura dei cartoni Dreamworks e Pixar, Le avventure del topino Despereaux comunica quale sia il suo target in ogni immagine eppure ha un sottotesto molto alto e una morale di fondo lontanissima da quella di stampo cristiano cui siamo abituati (male e bene non si contrappongono dialetticamente ma si contaminano continuamente).
Si tratta di un prodotto particolare e sofisticato che anche nella scelta estetica di uno stile pittorico ricorda per certi versi le illustrazioni favolistiche tradizionali e in alcuni inserti immaginari i classici Disney afferma la sua diversità intellettuale.
Volutamente privo dell'umorismo devastante della Dreamworks e dell'azione furiosa di molti prodotti per bambini potrebbe mancare l'obiettivo commerciale ma di certo l'opera di Sam Fell (che adatta il racconto omonimo di Kate DiCamillo) rimarrà come uno degli esperimento più peculiari ed intriganti del suo genere.

da MYMOVIES.IT

Cinema: l'identikit del pirata italico

PIRATI E NON PIRATI
I dati raccolti dalla FAPAV in collaborazione con IPSOS riguardo la pirateria dell'audiovisivo in Italia sono molto interessanti: una cosa simile da noi non è mai stata fatta. Ma vanno letti con attenzione e soprattutto tenendo a mente la metodologia utilizzata. Il criterio applicato, cioè quello delle interviste domiciliari (fatte di casa in casa e non al telefono), è infatti più affidabile di altri. Ma la confessione di quello che è un atteggiamento percepito come erroneo (oltre che un reato non sanzionato) può rivelare dei problemi che infatti sembra di intravedere.

Di certo però ci sono i numeri. Il 32% del campione di 2000 individui intervistati si è dichiarato in qualche modo pirata, sia per i file scaricati dalla rete (21% del totale), che per i DVD comprati sulle bancarelle (17%) o per la cosiddetta pirateria indiretta (24%), vale a dire i film pirata visti o prestati da amici. In più ognuno ha dichiarato di aver esercitato almeno una volta tutte e tre le forme di pirateria.

Il pirata online inoltre è generalmente giovane (tra i 15 e i 24 anni), ha un diploma di scuola media superiore e sta studiando, vive nel nord-ovest ed è un forte utilizzatore di tecnologia. Diversamente invece il pirata fisico ha almeno 33 anni, generalmente vive al sud, ha un diploma di scuola media inferiore, è sposato ed ha un lavoro impiegatizio.

Certo, a dominare sempre di più è Internet: la pirateria fisica è in calo e quella digitale in aumento. Nonostante rimangano la forma più praticata di reperimento di contenuti online, anche il peer to peer e il download sono in calo a favore dello streaming. Ad oggi il 20% vede film illegalmente scaricandoli mentre il 3,8% solo li guarda in streaming, ma tutti concordano sulla possibilità che in futuro i numeri si invertano.

I film in questione sono soprattutto di prima visione, almeno nel 60% dei casi (e il 20% di questi non è ancora al cinema), mentre un sorprendente 30% è costituito da titoli più vecchi. Tutti comunque (96%) sono in lingua italiana. Il pirata sarebbe più raffinato nelle sue esigenze di quanto non lo si dipinga, tanto che solo nel 10% dei casi è insoddisfatto del livello qualitativo di ciò che trova, mentre nel caso di pirateria fisica lo è nel 30% dei casi. Forse è anche questa ricerca e questa "professionalità" nell'offerta ad indurre il pirata a non percepire l'illegalità di ciò che fa. Il 60% infatti sa bene che è reato ma poi non lo percepisce come tale: anche i non pirati non lo percepiscono come tale e non condannano chi, diversamente da loro, vede film illegalmente.

Il discorso però si fa purtroppo più ostico nel momento in cui vengono illustrati i dati qualitativi, quelli cioè derivati da interviste in profondità e finalizzati a comprendere le abitudini del pirata e il suo modo di vedere il cinema. Più ostico perché il ritratto finale non collima molto con quanto siamo abituati a vedere, con i pirati che conosciamo e con la logica dell'atto. La metodologia seguita in questo caso è stata quella dei focus group (cioè delle interviste collettive di diverse tipologie che vadano più a fondo) con teenager, bambini e adulti. Cosa che ha lasciato fuori la fascia 20-30 anni, una delle più coinvolte, a detta dei dati stessi.

Il risultato è che per il pirata il PC è "il fulcro attorno al quale gravita gran parte del proprio tempo libero, una chiave di accesso al mondo, molto investita emotivamente con cui sta spessissimo in stretta connessione" e il film è "un contenuto da consumare subito e in quantità, la visione perde la cornice di riferimento e qualsiasi argine andando in deroga sulla qualità audiovideo senza problemi. La visione avviene soprattutto a casa e sul PC come riempitivo di tempi morti".

Il non pirata (non c'è un nome che lo identifichi se non in relazione ai pirati) vede il PC come "un'opportunità tra le altre, un canale di comunicazione e di divertimento ma non totalizzante del proprio tempo libero e dei propri interessi" e il film è "intrattenimento ma anche un oggetto dal valore culturale distintivo e la visione è caratterizzata da una precisa ritualità peculiare dunque la qualità è un prerequisito. La visione avviene soprattutto al cinema e quando è domestica se ne salvaguarda la specificità".

Ciò che non sembra tornare è innazitutto il discorso sulla qualità. Il pirata sarebbe noncurante della qualità perché consuma e non vede film, ma poi nella parte quantitativa della ricerca si spiega come in realtà giudichino soddisfacente la qualità delle copie pirata (che in effetti spesso è alta). Oltre a questo poi è strano come il pirata sembri meno interessato al cinema sebbene veda più film del non pirata (perché oltre alle copie illegali va anche al cinema) e poco acculturato, quando i dati lo identificano come dotato di diploma di maturità e studente universitario.

Inoltre durante la presentazione dei dati sono stati mostrati anche delle inquietanti illustrazioni, che per motivi di privacy non sono stati diffusi alla stampa ma che avevano un ruolo che è apparso, forse, in fondo non troppo diverso da quello del plastico nelle ricostruzioni televisive dell'omicidio di Cogne. Era stato infatti chiesto a dei bambini probabilmente di età inferiore ai 13 anni di disegnare "la visione di un film".

I disegni dei bambini che piratano o che hanno confidenza con la pirateria erano piccolissimi in fogli grandi e senza colori! Li ritraevano piccoli rispetto al resto ed erano sostanzialmente privi di qualsiasi stimolo. In due parole: tristi e raggelanti. Al contrario i disegni dei bambini estranei alla pirateria erano grandi, giocosi, fantasiosi, colorati e pieni di idee. Lecito interrogarsi su quanto si sia cercato di comunicare con questo tipo di rilevazione. Sembrerebbe che i bambini che seguono tutte le regole siano più fantasiosi e creativi di quelli che invece agiscono al di fuori dagli schemi imposti dalle autorità. Che dunque chi pirata poi sia grigio dentro. Il messaggio accluso a questa esposizione è apparso esplicito: un augurio che i nostri bambini non siano come quelli che piratano.

ALIMENTARE IL MERCATO
È stato anche detto che la pirateria ha sottratto al cinema un volume d'affari per quasi 600 milioni di euro. Una cifra calcolata chiedendo ad ogni intervistato cosa avrebbe fatto se non avesse trovato l'ultimo film che ha piratato. A seconda del tipo di risposta ("Sarei andato al cinema", "l'avrei noleggiato", "l'avrei cercato in tv" oppure "niente") sono stati valutati i soldi persi del noleggio o dei biglietti e poi si sono moltiplicati questi dati per tutti i film piratati. Un dato presentato come ufficiale, ma che poi il presidente della FAPAV Filippo Roviglioni, interpellato sulla questione, ha commentato come "Non è preciso ma grosso modo i soldi sono quelli".

Non è stata poi fatta menzione del fatto che secondo i dati Cinetel (che è l'organo ufficiale di rilevazione) dal 2003 ad oggi i biglietti staccati sono aumentati e non diminuiti. Mai, nemmeno un anno (l'unica eccezione è stato il passaggio 2007/2008, ma in quel caso, lo dicono gli addetti ai lavori, il calo è stato dovuto al fatto che il 2007 sia stato un anno eccezionale per numero di blockbuster usciti) e allo stesso modo dal 2003 ad oggi le vendite di DVD sono aumentate sempre di anno in anno (dati Univideo). L'unica cosa che è calata (vertiginosamente) è stato il noleggio. Il pirata dunque va anche al cinema e compra i DVD, pure di più che in passato. Cioè, come è normale che sia, più vede film più si appassiona al cinema. Interpellato sulla questione, sempre Filippo Roviglioni ha sostenuto che non sia vero che i biglietti sono aumentati. Informato sulle fonti dei dati ha dichiarato che "Qui si fa un discorso più in generale, in Italia c'è una legge che va fatta rispettare".

C'è stato infine anche spazio per ipotizzare dei possibili rimedi. La FAPAV ha spiegato come la ricerca sia stata fatta per essere uno strumento utile nelle mani del governo, sperando che anche grazie alla commissione da poco attiva si possa giungere ad un rimedio. FAPAV suggerisce una strada decisa sul modello francese. A tal proposito Roviglioni ha raccontato anche dei primi timidi tentativi mossi dalla Federazione: "Un mese fa con un software trovammo un certo numero di persone che scaricavano film e musica. Andammo dal magistrato molto contenti, con nome e cognome, il magistrato ci chiese come li avevamo ottenuti e visto che ovviamente i pirati in questione non erano consenzienti ci disse che rischiavamo di essere inquisiti per violazione della privacy. Siamo andati allora a parlare con il numero due in materia di privacy che ci ha detto solamente come condivida il nostro senso di impotenza e frustrazione".

Nella stessa direzione si è pronunciato il sottosegretario alle comunicazioni Paolo Romani: "Noi in Europa siamo vicini alla posizione francese e al momento l'unico dubbio che abbiamo è solamente se agire prima o dopo l'intervento della magistratura". Si è insomma parlato di "mettere un filtro a questi siti" (sic!) fino a che non sono entrati nella discussione alcuni registi e produttori cinematografici intervenuti alla presentazione, i quali si sono dimostrati di opinione diversa, proponendo in alcuni casi di impugnare soluzioni che sembrano accordarsi meglio all'andamento del mercato.

È stato Paolo Virzì il primo a prendere la parola con una certa verve, difendendo la propria categoria (poi, a presentazione finita ha anche candidamente ammesso di aver calcato la mano perché poi lui è in prima persona è un regista e proprio per questo gli spetta decidere di queste cose). Ha lanciato una forte accusa agli ISP, che ritiene i veri colpevoli: "Un ragazzino paga 50 euro al mese per una connessione a banda larga e quelli sono soldi rubati al cinema!". Il regista di Tutta La Vita Davanti propone di combattere la pirateria senza perseguire chi scarica ma con un'alternativa legale migliore: "Dobbiamo essere noi a mettere online i film di un anno fa, in ottima qualità, pieni di extra e di cose ganze! E devono costare poco, 50 centesimi o un euro".

Ripresa la parola, Roviglioni ha tenuto a prendere le distanze dall'attacco agli ISP e anche dal rimedio giudicato forse appropriato ma comunque in questo momento poco efficace: lo scopo principale sarebbe quello di lottare contro la pirateria.

Anche l'intervento seguente però è andato nella direzione di quello di Virzì, anzi anche più in là, con una proposta ancora più interessante, quella di Enrico Vanzina. Si è espresso a favore dell'azzeramento della finestra distributiva: "Andiamo al cinema, in dvd, in tv e in rete con un film nello stesso momento poi ognuno sceglie come vederlo". Un'idea che ronza da tempo e che in sostanza dà ai pirati esattamente ciò che già hanno ma meglio e ad un prezzo contenuto.

Anche i produttori, rappresentati da Riccardo Tozzi di Cattleya (Mio Fratello È Figlio Unico, Solo Un Padre), si sono detti più che favorevoli a mettere in piedi un'alternativa legale a prezzi modici: "Con i volumi di Internet che volete che ci voglia a farli costare poco?".

Viene da chiedersi dove sia il problema se tutti i produttori di contenuti sono d'accordo. Viene allora in aiuto Warner che fa sapere come si stia già muovendo e molto per la vendita e il noleggio online. Tuttavia i negozi oggi presenti nella rete italiana non accettano sempre di mettere i loro film e di metterli a prezzi contenuti perché mancano le altre case di produzione. L'utente, dicono i venditori, non ha cognizione di quale film appartiene a quale casa e se viene e non trova ciò che cerca pensa semplicemente che il sito non abbia una buona offerta. E magari non torna più.

da PUNTO INFORMATICO del 17/04/09

RECENSIONE Louise Michel

Prima vessate con orari e turni infami e successivamente lasciate senza un lavoro dall'improvvisa chiusura fallimentare dello stabilimento tessile dove lavorano, un pugno di operaie riunitesi per decidere che fare con i soldi della liquidazione optano per la scelta più sensata: usarli per assoldare un killer che uccida il padrone. Ma in una multinazionale non è sempre semplice capire chi sia il vero padrone. Scalcinati, incompetenti, spietati ma incredibilmente determinati a portare a termine il lavoro, un killer della domenica (che in realtà prima era una donna) e una delle impiegate (che in realtà prima era un uomo) saranno disposti anche a viaggiare fuori dalla Francia su una barca di clandestini pur di trovare il vero padrone e farlo fuori.
Questa storia semi-seria (ma esilarante!) di come un pugno di impiegate siano diventate committenti di una strage di funzionari è uno dei film più autenticamente anarchici e surreali dell'anno, una vera commedia di resistenza al vivere civile e sociale che già si fece notare al Festival del Film di Roma. Tutto in essa diventa atto di ribellione ad un ordine anche e specialmente quello che i due poveri protagonisti (per l'appunto Louise e Michel) non intendono certo come tale.
Il ribaltamento sessuale è infatti al tempo stesso dimostrazione della follia delle regole sociali (entrambi cambiano sesso per trovare un lavoro) e tassello di un caos più generale a cui appartengono anche cose il non saper nè leggere nè scrivere, un particolare che nel mondo contemporaneo può anche causare la morte!
Nulla può arrestare le piccole operaie nella loro furia omicida e soverchiatrice delle rigide strutture gerarchiche aziendali. Dovessero anche sterminare tutta la dirigenza arriveranno al responsabile, messaggio reso ancora più chiaro dalla didascalia finali che spiega come Louise Michel sia anche il nome di una nota anarchica francese d'inizio novecento.
I registi Benoît Delépine e Gustave de Kervern sostengono (da anarchici) di non conoscere la tecnica del cinema e di limitarsi a inquadrare ciò che vogliono mostrare, ma non è assolutamente vero. La conoscono e come! Non c'è immagine dietro la cui composizione non stia una profonda riflessione su quale elemento della scena vada sottolineato o dietro alla quale non si nasconda una valutazione morale. Non c'è carrello che non sia indispensabile (per finalità comiche, impressionanti o narrative) e non c'è forzatura del normale racconto che non sia una raffinata deviazione utile a raccontare un mondo (come ad esempio lo sono i brevissimi flashback dei protagonisti). Si divertono con una comicità semplice ma efficace, spesso innescata dal contrasto tra ciò che è in scena e ciò si può solo sentire fuoriscena. E anche quando inseriscono brevissimi momenti sentimentali si tratta di attimi tutti da cogliere, realizzati con grande conoscenza del cinema.

da MYMOVIES.IT

Joanne Colan lascia Rocketboom

Non sentiremo più Joanne Colan dire con il suo splendido accento inglese: "Hi I'm Joanne and this is Rocketboom", da venerdì infatti non è più la presentatrice dello show di Andrew Baron. E se la notizia non vi sconvolge sappiate che è un problema solo vostro.

Che Rocketboom sia lo show in rete più importante in assoluto lo dice il fatto che quando circa 3 anni fa Amanda Congdon, il suo primo storico volto, l'ha abbandonato per dissapori interni, ABC News l'ha subito presa per immetterla nella televisione tradizionale. Un passaggio da nuovo a vecchio medium che all'epoca non aveva precedenti, come del resto ogni cosa che circonda lo show di Andrew Baron.

A quell'epoca a sostituirla arrivò appunto Joanne Colan, volto già noto grazie ad una militanza di anni in MTV UK ("Scandalo! Una della tv che passa alla rete!!"), una ragazza splendida quanto la precedente ma molto più abile, professionale e competente. Eppure, nonostante tutto questo, a molti in Italia la parola Rocketboom non suscita quel sorriso sardonico che si materializzerebbe sul volto di qualiasiasi altro heavy user della rete americano, quel sorriso compiaciuto dato dal condividere la conoscenza di un prodotto intelligente, divertente, apprezzato e seguito da chiunque si intenda di rete o di nuovi format audiovisivi.

Se ancora non avete capito di che si stia parlando potete farvi un'idea di come Rocketboom distrugga e ricostruisca il concetto vetusto di TG immergendolo in rete guardando la puntata di addio di Joanne, messa online venerdì scorso. E' un collage di tanti momenti-Rocketboom. Ne esce un quadro giustamente scanzonato ma sappiate che a margine di tutto questo lo show regala interviste interessantissime ai protagonisti del mondo di internet (perchè davvero ne esiste un altro?), copertura di eventi internazionali e storie che nessuno racconta.

Oggi Rocketboom è una macchina da soldi, ma già nel 2005, ad un solo anno dal suo lancio, era presente nella schermata di prova della nuova funzione videopodcast del iMac G5 durante uno dei seguitissimi keynote di Steve Jobs e nel 2006 contava su 400.000 spettatori quotidiani. Oggi Rocketboom conta diversi spinoff (il più interessante e originale dei quali è Know Your Meme, ha da pochissimo un contratto di sponsorizzazione con Intel e dall'estate scorsa uno di distribuzione con Sony (di cui si sa solo che il gigante tecnologico paga una cifra a 7 numeri).

E ora? Da lunedì a condurre Rocketboom c'è Caitilin Hill, scelta non a caso per come si è fatta notare negli ultimi anni su YouTube. Partendo da una videorisposta ad uno dei primi episodi della serie online lonelygirl15, Caitilin ha lanciato il suo canale TheHill88 dove ha tenuto un vlog arrivato ad essere il secondo canale più sottoscritto d'Australia e il 49esimo in tutto il mondo (una posizione in meno di DiscoveryNetworks e qualcuna in più rispetto alla BBC). Il suo esordio nello show non è stato dei più facili ma è evidente come anni di vlogging in proprio le abbiano dato una sicurezza e una confidenza con il pubblico e lo stile del video in rete, che nessuno presentatore canonico avrebbe (e che ai suoi inizi tempo Joanne Colan non aveva).

Anche questo dà il senso di che cosa sia Rocketboom e soprattutto chi sia Andrew Baron, vera unica mente dietro tutto il progetto. Baron ha messo in piedi da solo il punto di riferimento su come si facciano e soprattutto come si distribuiscano video in rete, tanto da poter contare su amicizie, collaborazioni e assunzioni di prim'ordine. Quando tentò di aprire una divisione sulla West Coast dello show a presentare c'era LisaNova, altra star indiscussa del video blogging (14esimo canale più sottoscritto in assoluto di YouTube nella categoria Director).

Ecco perchè quando ci si stupisce di come da noi manchi qualcosa di simile per mentalità, freschezza, intraprendenza e intelligenza forse sarebbe opportuno stupirsi prima di tutto di come non ci sia conoscenza di quanto accade nel resto del mondo e prodotti come Rocketboom non siano noti quanto dovrebbero.

da WIRED.IT del 22/04/09

24.2.09

Paura di città o terrore della scampagnata?

Il mai nato e Venerdì 13, horror cittadino e vacanza con carneficina
Ci sono due tipi di film horror: quelli che mirano a portare gli elementi dell'orrore nella quotidianità della vita reale e quelli che invece localizzano l'orrore in un determinato luogo in cui i protagonisti, loro malgrado, lo incontrano.
Il mai nato appartiene alla prima categoria, quella i cui film mirano a creare un mood spaventoso che scardini alcune certezze degli spettatori riguardo la loro vita ma che spesso, proprio per la minuziosa descrizione della quotidianità, sfociano nel ridicolo non riuscendo nel loro intento di mettere in immagini un vivere minacciato dal male.
Non almeno quanto il secondo tipo di film horror, quelli come Venerdì 13 che, mostrando persone normali in contesti straordinari, spesso possono più facilmente spaventare andando a turbare le sicurezze del pubblico senza bisogno di addurre vere ragioni alla persecuzione.
Non c'è nessun mistero negli horror extraurbani ma una disarmante chiarezza d'intenti da parte di un carnefice riguardo il destino delle sue vittime alle quali, nonostante i molti sforzi, rimane la sola possibilità di cercare di procastinare l'inevitabile morte fino alla fine del film.

Vita quotidiana vs. situazione straordinaria
L'horror metropolitano o cittadino solitamente mette in campo forze palesemente soprannaturali e si prende la briga di orchestrare una trama sufficientemente complessa da necessitare un intero film più un intreccio complesso per essere spiegarne origini, intenti e funzionamento.Il mai nato ad esempio tira in ballo religione, nazismo, retaggi passati e molti personaggi accessori che fanno da “traghetto” nel viaggio della protagonista (e quindi del pubblico) verso la comprensione delle motivazioni di quanto stia accadendo, motivazioni che immancabilmente arriveranno entro la fine del film.
Tutte cose assolutamente superflue per l'horror d'ambientazione extracittadina, che non ha bisogno di una trama eccessivamente complessa e al contrario si fonda su alcune dinamiche molto semplici e ripetitive (che sono al centro delle ironie metafilmiche di Scream) più simili ad un gioco ad eliminazione che ad un thriller. Anche in questi film, come Venerdì 13 dimostra perfettamente, una spiegazione anche se esile esiste, ma non è mai un vero mistero, anzi spesso è illustrata all'inizio poiché il cuore di tutto non è la scoperta di ciò che accade ma l'azione in sè: la carneficina.
Se dunque l'horror cittadino si affatica in tutti i modi a spiegare le proprie ragioni, prendendosi la briga di svelare lentamente e progressivamente il male, l'horror extraurbano va dritto al punto e con una motivazione pretestuosa mette in scena un massacro che in fondo non ha vere motivazioni che non siano la messa in scena dell'impossibilità di salvarsi. A dimostrazione di ciò è spesso presente l'università nei film di città (e in questo senso Il mai nato non fa eccezione) come luogo deputato a legittimare scientificamente ciò che accade, come se davvero il film volesse convincere lo spettatore che ciò che accade in scena ha anche un minimo punto di contatto con la vita reale.
Nel film di Goyer anche la religione coinvolta come sistema di contrapposizione tra bene e male in questo senso fornisce un elemento di “realismo”, con i suoi testi sacri, le sue figure mitologiche e le sue basi storiche.

Solo contro tutti
Altro elemento distintivo è il fatto che in città si è soli e fuori da essa in compagnia.
Nonostante la città sia il luogo della società di massa, quello nel quale la gente confluisce in numeri maggiori, essa è anche il luogo della spersonalizzazione e dell'atomizzazione, quello nel quale gli uomini sono soli nella folla, dunque sono soli anche davanti all'orrore. Mostri, fantasmi e demoni li inseguono singolarmente, possono uccidere i loro cari e qualche amico ma stringono con i protagonisti un rapporto esclusivo che non esiste nell'horror campagnolo dove si uccide tutto e tutti in un ordine che non è dettato da un intreccio ma dalle esigenze di suspence della pellicola.
Non ha un nemico particolare Jason ma massacra tutte le allegre compagnie di giovani che si avvicinano al suo territorio, punendoli per il solo fatto di esistere ed essere entrati in contatto con lui. Eì lui quello che è solo e che lo è sempre stato, tanto da fomentare l'odio verso gli altri, specialmente quella categoria a cui un tempo avrebbe aspirato. Ad un livello più alto si potrebbe dire che in tali film a salvarsi sono solo le figure più morali secondo l'etica bigotta, quelle che non fanno sesso promiscuamente, quelli che non si ubriacano e quelli che non fumano marijuana. Quelli in sostanza che non sono giovani nel senso comune del termine. Jason è democratico: massacra tutti. Sono però i registi ad essere bigotti salvando solo quelli che ritengono avere dei valori.
Tutto questo ovviamente non esiste in città perchè i protagonisti sono sempre afflitti da un'esistenza in un modo o nell'altro problematica e quindi nel loro piccolo già eroici e meritevoli la salvezza finale.

Inserire l'orrore in contesti ordinari e straordinari
Con un contesto ordinario l'horror cittadino in ogni momento stempera l'atmosfera di tensione attraverso gesti quotidiani: frequentare palestre, lavarsi i denti, telefonare ad un'amica o andare in cerca di alleati sono tutte pratiche e scene che agganciano la trama alla realtà ogni qualvolta l'apparizione demoniaca sembri sganciarla.
Questa doppia dimensione è molto complessa da gestire perchè dalla sintesi delle due componenti dovrebbe nascere un'atmosfera in grado di mutare la percezione che abbiamo dell'ordinarietà finendo per rendere i gesti quotidiani qualcosa di cui avere timore. E proprio qui Il mai nato fallisce, perchè la realtà con la sua estetica tranquillizzante ha la meglio sui momenti di spavento rendendoli poco plausibili.
Venerdì 13 invece, come tutti gli attacchi immotivati, violenti e ben concentrati in un lasso temporale breve (come abbiamo visto recentemente in The Strangers, horror casalingo ma decisamente extraurbano), non ha nessun punto di contatto con le rassicuranti dinamiche del quotidiano e in questo non teme i ridicolo nonostante metta in scena cose altrettanto poco plausibili (specialmente per quanto concerne l'inarrestabilità del carnefice).
Ecco perchè procedendo per metafora e per allegoria della realtà gli horror che sono ambientati in contesti molto lontani dalla quotidianità riescono a parlarci meglio di essa. Non riuscire a fermare un massacro che avviene in campeggio diventa molto più destabilizzante della meditata lotta contro le forze del male che avviene nel cortile dietro casa.

da MYMOVIES.IT del 24/02/09

23.2.09

L'Oscar? Lo hanno vinto i pirati del web

Quando nella notte di domani a Los Angeles i vincitori degli Academy Awards alzeranno al cielo la statuetta, milioni di persone avranno già scaricato i loro film illegalmente e in ottima qualità.
Dei 26 film in gara per almeno un premio ben 23 sono già reperibili in rete. E anche se molti sono appena usciti nelle sale, la visione pirata non è quella un po' distorta e traballante di chi ha ripreso il film con una telecamera la sera della prima (o dell'anteprima…) ma la migliore qualità possibile, quella del dvd, anche se di dvd in commercio non ce n'è ancora traccia.

La cosa non è normale, ogni buon pirata sa che solitamente i film arrivano in rete prima in cattiva qualità e solo in seguito all'uscita in dvd in versioni migliori: “Occorre fare attenzione perchè oltre alla ripresa in sala un film può arrivare nei circuiti illegali anche grazie a copie di lavorazione messe online da conniventi interni all'industria cinematografica” spiega Marco Spagnoli, giornalista e critico del Giornale Dello Spettacolo, direttore artistico dei Dvd Awards e autore di pubblicazioni sugli Oscar come il libro Big Night.

Come si spiega allora quest'impennata qualitativa? “Non si può dire con certezza, ma esiste l'ipotesi di una fuga di materiale causata dai giurati dell'Academy che per valutare i film ricevono i DVD a casa anche prima che escano in sala”.
Un problema grosso, tanto che in America le associazioni dei produttori stanno prendendo serie precauzioni con controlli da aeroporto all'entrata dei cinema e indagini all'interno delle proprie strutture. Da noi invece non sembra muoversi molto: “Siamo il paese con la maggior quota di download illegali al mondo (20%), eppure non si è mai fatto abbastanza per sensibilizzare i giovani e i professionisti del cinema in questa direzione. L'industria deve guardarsi in faccia e capire chi e perché favorisce un business che in tempi di crisi depriva l'industria di fondi vitali e che favorisce l'illegalità”.

da LA GAZZETTA DELLO SPORT del 23/02/09

16.2.09

Il ritorno del robottino spaziale "Pixar, passione fantascienza"

SUONA come "Wall-e" ma si chiama "Burn-e" e in comune con il robot protagonista dell'ultimo film Pixar ha anche il fatto di essere al centro di un cortometraggio inedito di quelli per i quali lo studio d'animazione è famoso, contenuto nel DVD di Wall-e uscito oggi. Parlando con Alan Barillaro, supervisore all'animazione di Wall-e (e di un'infinità di altre opere dello studio diretto da John Lasseter) si scopre come tutti quanti alla Pixar vadano matti per i robot e che raccontare la storia del piccolo Wall-e che insegue il suo amore attraverso la galassia è stato solo un pretesto per mettere sullo schermo quanti più robot era possibile: "Tutti alla Pixar siamo cresciuti con i film di fantascienza e ora siamo appassionati di questi temi", spiega Barillaro. "Già in Wall-e, nonostante una grande parte del film fosse costituita dalla storia d'amore, c'era anche tutto un lato più geek che aveva a che vedere con il nostro amore per i robot. Evidentemente non ne avevamo ancora abbastanza".

E davvero in Burn-e si percepisce questo amore per le piccole creature tecnologiche. Il corto ideato e diretto da Angus MacLane si svolge contemporaneamente ai fatti raccontati in Wall-e, mostrando la storia parallela di un robot addetto alla saldatura alle prese con incredibili e comiche difficoltà che incrociano le avventure di Wall-e e Eve. Dotato di uno humor e di una cattiveria tipici della grande tradizione dei cortometraggi animati americani, Burn-e è ancora un'altra piccola gemma proveniente dalla Pixar.

"Il segreto è che amiamo fare film e raccontare storie, così facciamo solo i film che vorremmo vedere al cinema", una linea di pensiero che però si potrebbe applicare anche agli studi rivali come la Dreamworks (responsabile per i grandi successi di Shrek, Madagascar e il prossimo Mostri contro Alieni). Che siano allora proprio i corti uno dei segreti della straordinarietà della Pixar? "Facciamo i corti per molte ragioni. Una delle principali è dare ai giovani creativi la possibilità di raccontare una storia, e poi anche John Lasseter ha iniziato con i corti, per questo si tratta di un tipo di processo creativo di cui siamo innamorati".

Un amore ricambiato dal pubblico e dalla critica che quest'anno verrà sancito alla Mostra del cinema di Venezia con la consegna del Leone D'Oro alla Carriera proprio a John Lasseter e a tutti gli altri membri fondatori dello studio, un riconoscimento collettivo come mai era capitato. Il premio non ha mancato di suscitare grande entusiasmo nella compagnia anche se mitigato dalla forte etica lavorativa statunitense: "Siamo veramente eccitati per questo premio e per John, è una cosa molto grande e quando ci sarà la premiazione per un momento ci fermeremo tutti per festeggiare".

La cerimonia dunque interromperà temporaneamente la lavorazione di Up, il prossimo lungometraggio firmato da Pete Docter (già regista di Monsters & Co.), la cui uscita americana è prevista per il 29 maggio e che da noi arriverà con il consueto ritardo in autunno. Ovviamente in tre dimensioni. E' la storia di un uomo anziano che, legata la propria abitazione ad una massa di palloncini tale da farla alzare in volo, viaggia verso il sud degli Stati Uniti per vedere le montagne come avrebbe voluto la sua ormai defunta compagna. Con lui c'è anche un bambino, inavvertitamente salito sulla veranda dell'abitazione al momento del decollo.

Una trama in linea con le grandi imprese da sempre al centro dei film Pixar, ma più di così non si può sapere: "Da quel poco che ho visionato ho capito che si tratta di una delle cose più visionarie ed eccitanti che abbia mai visto. Non posso anticipare molto ma ci siamo dati davvero da fare e ci siamo superati per offrire al pubblico qualcosa di veramente coinvolgente".

da REPUBBLICA.IT dell'11/02/09

8.2.09

RECENSIONE Il Curioso Caso di Benjamin Button

Benjamin Button nasce il giorno della fine della prima guerra mondiale, è un bimbo in fasce ma ha la salute di un novantenne: artrite, cataratta, sordità. Dovrebbe morire il giorno dopo e invece più passa il tempo più ringiovanisce. La sua è una vita al contrario che attraversa il Novecento americano sempre alla ricerca del primo e unico amore, una donna molto più emancipata, libera e in linea con il suo tempo di lui. L'unico momento in cui si potranno trovare sarà all'incrociarsi delle loro età: "Mi amerai ancora quando sarò vecchia?", chiede lei. "E tu mi amerai ancora quando avrò l'acne?" risponde lui.
Fincher sceglie di narrare una storia con un espediente classico: a partire dalla modernità, attraverso le memorie di un diario letto alla protagonista ormai anziana e in punto di morte. Fotografa tutto virando verso il seppia e opta per la calligrafia spinta, cosa che ovatta il racconto con l'indulgenza e il fascino di cui sono dotati i ricordi. Il risultato è un'agiografia del passato che vince sul presente (New Orleans ieri e oggi con Katrina alle porte), una prospettiva a ritroso indulgente e favolistica sugli Stati Uniti che non affronta nessun tema davvero e che, cosa bene più grave, manca di emozionare con sincerità.
Benjamin Button ringiovanisce invece di invecchiare ma questo non ha nessun effetto sulla trama nè tantomeno serve a dare una visione particolare degli eventi in cui è coinvolto o della società in cui è inserito, come avveniva invece con la stupidità di Forrest Gump (il paragone inaffrontabile con l'opera di Zemeckis sorge spontaneo data la sostanziale identità della struttura della storia).
Il curioso caso di Benjamin Button sembra chiedersi unicamente "Come si comporterebbe un vecchio con la testa di un bambino? E come un giovane con l'esperienza di un vecchio?", tentando di conseguenza una riflessione sulla morte e sulle possibilità di sfruttare al massimo la propria vita. "Non sai mai cosa c'è in serbo per te" ripete a Benjamin la madre adottiva, evitando accuratamente di citare scatole di cioccolatini.
Gigantesco il lavoro fatto sull'invecchiamento e il ringiovanimento digitali di Brad Pitt, entrambi ottenuti sperimentando una tecnica innovativa di motion capture. Il risultato è evidente: in ogni caso il personaggio è sempre lui, Brad Pitt, anche quando gli somiglia veramente poco. Meno celebrata invece Cate Blanchett che, invecchiata e ringiovanita anch'essa per esigenze di copione, supplisce alla frequente mancanza di digitale con la solita prestazione fuori da ogni ordinarietà.

da MYMOVIES

Il cinema prepara la rivoluzione
il futuro sarà a tre dimensioni

La buona notizia è che i film in 3D ci sono e piacciono, la cattiva è che è ancora difficile vederli. Nel corso del 3D Day al Future Film Festival di Bologna è emerso infatti che al momento sono 42 le sale italiane pronte per le tre dimensioni, poche rispetto alle 3.000 totali e pochissime se si pensa a quanti e quali film girati in tridimensionale usciranno nel 2009: Up (della Pixar), L’era glaciale 3, A christmas carol (di Robert Zemeckis) e l’attesissimo Avatar (di James Cameron) solo per citare i più importanti.

La copertura del territorio però continua e già per l’uscita pasquale di Mostri contro alieni, il primo cartone Dreamworks pensato e realizzato dall’inizio con tecnologia 3D, le sale dovrebbero essere diventate almeno 60 sulle 600 totali che proietteranno il film. Dunque nel 90% dei casi il film verrà visto in una versione adattata alle tradizionali due dimensioni.

Bisognerà però fare attenzione perchè non si ripetano i problemi di Viaggio al centro della Terra 3D, altro film tridimensionale che era visibile più che altro in versione bidimensionale. In molti dei cinema non 3D infatti non era specificato che si trattasse di una normale proiezione, cosa che ha indotto la gran parte degli spettatori a pensare di aver assistito ad un film in tre dimensioni pur non avendo dovuto indossare gli indispensabili occhialini. In quei casi il commento è stato inevitabilmente: “Non cambia niente!”.

Una pessima pubblicità per una tecnologia che invece dovrebbe servire da cavallo di Troia per l’adozione del digitale (e di tutti i vantaggi distributivi che comporta) anche nelle sale italiane.

Tuttavia, nonostante la scarsa copertura del territorio, lo stesso i primi film in 3D hanno confermato anche da noi i trend positivi registrati nel più maturo mercato americano: quando lo spettatore può scegliere tra vedere un film 2D oppure in 3D in 7 casi su 10 sceglie il secondo e soprattutto i film tridimensionali lasciano soddisfatti, tanto che i loro incassi invece di calare del fisiologico 35% nelle prime settimane calano solo dell’8%.

da LA GAZZETTA DELLO SPORT del 01/02/09

28.1.09

Quarantine e REC: la differenza è tutta nelle piccole variazioni

Gli americani non doppiano i film, li rifanno da capo. Dopo il caso Vanilla sky/Apri gli occhi tornano a riadattare un film di successo spagnolo con Quarantena, instant remake di REC.
E come per i molti casi di pellicole giapponesi riadattate anche stavolta si tratta di un horror, uno dei migliori e più "americani" tra quelli girati al di fuori degli Stati Uniti. Stranamente però anche Quarantena, come Vanilla sky e diversamente dai j–horror, è un calco quasi perfetto dell'originale, una copia identica nella storia, nella struttura del racconto, nelle scenografie, nelle scene e nell'idea di fondo. Una copia in cui ognuna delle molte piccole variazioni conta tantissimo.
A fronte di tante piccole differenze però il vero distacco tra Quarantena e REC è dato da come il primo faccia solo finta di imitare quello stile di ripresa amatoriale che il secondo invece persegue concretamente. In realtà Quarantena è cinematografico dall'inizio alla fine e prosegue quel discorso tutto hollywoodiano sull'orrore messo in scena con macchina a mano attraverso la grande cura profusa nell'illuminazione, nelle inquadrature (studiatissime e composte con molta cura), negli effetti di sfocato che indirizzano lo sguardo dello spettatore e nell'attenzione agli elementi della scena che inserisce o lascia fuori dal campo visivo.

La prima e più grande differenza tra i due film la si nota subito nella prima inquadratura: Scott, il cameraman che nell'originale spagnolo non vediamo mai entra in campo. È nero. E non sarà la sola volta che lo vedremo, le sue apparizioni saranno centellinate ma presenti lungo tutto il film, "normalizzando" in un certo senso il suo personaggio.
Allo stesso modo sono disegnati in maniera più canonica e quindi con un po' più di profondità anche i personaggi dei vigili del fuoco, specialmente nelle scene iniziali all'interno della caserma.
Un altro prevedibile cambiamento nei caratteri è poi quello che vede la famiglia di asiatici diventare una famiglia di africani e la scomparsa della figura molto europea del vecchio effemminato.
In linea con la tendenza statunitense a ritrarre in maniera violenta le proprie forze dell'ordine poi c'è un piccolo ma significativo cambiamento in come la polizia non solo impedisca ai personaggi di uscire dalla casa ma sia anche pronta ad ucciderli tramite dei cecchini piuttosto che lasciarli uscire.
Infine scompare tutto l'anticattolicesimo a sfondo satanico (molto tipico dell'horror spagnolo recente) che caratterizzava il personaggio originale dell'inquilino dell'ultimo piano. Anche in Quarantena questo non si vede ma stavolta non c'è la voce impressa sul nastro a spiegare cosa sia successo e i soli pochi indizi vengono dati dalle carte sui muri.

Dal punto di vista dei canoni dell'orrore invece le differenze tra Quarantena e REC è totale. Gli americani hanno leggi e regole proprie per quanto riguarda la paura e in questo senso hanno adattato le dinamiche del film aggiungendo alcune nuove scene o sottolineandone con maggior forza altre.
Su tutto risalta molto come gli "infetti" ruggiscano come animali, anticipando in un certo senso la loro rezione bestiale e come si prema molto più il pedale sul gore. Nel remake americano infatti la videocamera diventa anche un'arma spesso sbattuta contro il volto degli infetti per difendersi e c'è decisamente più spargimento di sangue.
Più in generale però si può dire che tutte le scene cardine e gli snodi narrativi sono rimasti invariati, e intorno ad esse le sequenze aggiunte sono state concepite, delle "variazioni sul tema".
C'è in più il personaggio di un ubriaco e del suo cane infetto che vengono eliminati in un'altra scena aggiunta che comprende un ascensore. Allo stesso modo ci sono sequenze aggiunte che prevedono la presenza di topi infetti nel palazzo. Presenza che poi troverà una spiegazione nelle scene all'ultimo piano.
E proprio dal punto di vista delle spiegazioni salta agli occhi come Quarantena si dilunghi molto di più nell'illustrare le ragioni scientifiche della contaminazione, teorizzando una forma di "rabbia" che contagia e si presenta all'istante, mentre poi si rifiuta di dare un senso a cosa abbia dato vita all'epidemia

da MYMOVIES del 28/01/09