20.7.07

Se i film usano internet per farsi pubblicità gratis

Meno di due settimane fa sono iniziate le riprese di Indiana Jones IV e già dal giorno dopo erano diffuse in rete una foto di Harrison Ford vestito nuovamente da Indiana Jones e un breve filmato di Spielberg e Lucas al lavoro sul set. In America è da poco uscito Ratatouille, attesissimo nuovo film d'animazione della Pixar, ma già da molti mesi in rete circolavano foto, disegni, trailer brevi e lunghi e addirittura dieci minuti sani del film. Niente pirateria, si tratta di tutto materiale originale, diventato in rete materiale promozionale senza bisogno di trattamenti o campagne specifiche ma solo grazie alla fama di cui i due film godono già da mesi prima della loro uscita.
Sono solo due esempi, i più recenti, di come internet stia cambiando la promozione cinematografica, specialmente per quanto riguarda le pellicole più attese, i grandi blockbuster e i film che coinvolgono autori o attori di culto, tutte quelle opere insomma che per un motivo o per un altro godono di un certo seguito e di un'aspettativa, almeno da una parte del pubblico, già dal momento del loro annuncio.
Grazie ad internet i fan e gli appassionati possono essere raggiunti a costo zero, sottoponendogli materiale di lavorazione grezzo (foto scattate sul set, brevissimi trailer, piccoli estratti dalle parti già completate del film) per ricordare loro continuamente che la lavorazione procede e l'uscita è sempre più imminente.
Così facendo i grandi studios puntano ad allargare questo tipo di pubblico creando una forte aspettativa nei confronti di una pellicola anche nei soggetti meno informati sul cinema che altrimenti non l'avrebbero assolutamente avuta.
E' quello che è successo intorno alle prime notizie su The Dark Night Returns, seguito di Batman Begins (il fortunatissimo quinto film della saga dell'uomo pipistrello scritto e diretto da Christopher Nolan ed interpretato da Christian Bale), sulla cui trama già si avevano indizi alla fine del film precedente e sul cui cast si è subito cominciato a vociferare. Nulla di tutto questo però è stato paragonabile all'effetto che si è avuto dalla diffusione in rete di una foto di Heath Ledger col trucco di scena da Joker. La particolarità del trucco (per niente glamour ma anzi molto crudo e realista) ha gettato una diversa luce sulle possibilità del film alimentando dibattiti, discussioni, speranze e aspettative non solo da parte dei fan ma anche dei semplici appassionati. Del film se n'è cominciato a parlare e molto, in molte maniere diverse e su luoghi diversi della rete: dai siti ufficiali dei giornali a quelli cinematografici, dai forum specializzati ai blog tematici, fino anche a quelli più generali. Un tipo di pubblicità non ottenibile in nessun'altra maniera e che è il sogno di qualunque produttore.
Tra tutti i modi attraverso i quali si promuove un film in rete questo, che è il più recente, sembra finalmente in grado di coniugare con intelligenza le specifiche potenzialità e caratteristiche della comunicazione su internet con la soddisfazione (sempre parziale) del bisogno di informazione degli appassionati. Cosa che non era assolutamente riuscita a tutte le strategie precedenti (che comunque continuano ad esistere) come i blog tenuti dagli autori durante la lavorazione, i siti messi in piedi per ogni film dove si possono trovare immagini, filmati, suoni e piccole chicche o anche i più tradizionali accordi di sponsorizzazione sui grossi portali e motori di ricerca.
Al momento dunque sembra che nulla come la diffusione di materiale ufficiale sia in grado di far parlare di un film, anche a grande distanza dalla sua uscita. A dimostrarlo è il fatto che in Italia ancora si attende l'uscita in sala di Ratatouille (prevista per ottobre) ma già su internet già si parla di Wall-E, il prossimo film Pixar, grazie alla diffusione di una primissima foto in cui si vede solo un piccolo robot da lavoro con occhi antropomorfi e di un brevissimo trailer che mostra poche immagini del robot intento al suo lavoro alienante con in sottofondo la musica di Brazil, il film di Terry Gilliam del 1984. Pochissime immagini e poche informazioni che tuttavia sono sufficienti, ad un anno di distanza dall'uscita, a scatenare voci di corridoio, teorie e supposizioni sulla trama e il possibile svolgimento del film, sempre in attesa della prossima piccola indiscrezione.

da IL SECOLO XIX del 19/07/07

Vacancy: la serie B di qualità si vede dal racconto

E' tutto nella narrazione
Vacancy si presenta come il più consueto degli horror estivi. Lo dicono tutte le componenti "paratestuali": lo dice la locandina, lo dicono gli attori (noti ma non di primo piano), lo dice il trailer e lo dice la forma della trama.
Una coppia in crisi si ferma in un motel di notte e scopre che in realtà è una trappola mortale gestita da un sadico regista di snuff movies che tortura e uccide davanti alle telecamere i suoi ospiti. Nulla di più classico. Anche i personaggi rispondono in pieno alle figure archetipe: l'uomo troppo sicuro di sè e la donna scossa da un trauma, entrambi pronti a lasciare l'altro.
Eppure Vacancy si discosta moltissimo da qualsiasi altro filmetto estivo per l'approccio che ha al racconto. E' il tipico film di serie B (e in questo caso è un complimento) in grado di raccontare moltissimo delle idee, dei sogni e delle paure dei protagonisti (e per esteso di tutti) attraverso una forma che mette in assoluto primo piano il racconto degli eventi senza concedere mai spazio all'introspezione esplicita ma arrivandoci sempre "di rimbalzo", per induzione dalle azioni dei personaggi.
I segreti di un simile film, i motivi percui pur sembrando in tutto e per tutto come molti altri riesce invece ad andare oltre, sono molti e affondano le radici nel modo in cui il regista Nimròd Antal affronta la narrazione.

Innanzitutto la location
Il Pinewood Motel, il luogo in cui i protagonisti sono bloccati per quasi tutto il film, braccati dai macellai che lo gestiscono, è un vero e proprio personaggio a sè. Ha un carattere, un'architettura particolare (a ferro di cavallo per aumentare il senso di claustrofobia) e una serie di vie di fuga e trappole da scoprire piano piano nel corso del film che lo rendono uno snodo fondamentale per tutto il racconto. Solo con una simile location è possibile portare avanti un'ora e mezza di film in cui succedono sempre cose diverse.
Non a caso non è stato possibile utilizzare una struttura già esistente: “Abbiamo deciso che la cosa migliore da fare fosse costruire il motel secondo le nostre aspettative”, afferma il produttore Lieberman. “Alla Sony sono stati così gentili da concederci il teatro di posa numero 15, che è uno dei più grandi al mondo, consentendoci di ricostruire l’intero motel e la stazione di rifornimento”.
Oltre alle pareti in legno c'è molto vetro nel film, le stanze e specialmente l'appartamento dove la coppia protagonista è prigioniera è stata costruita con molti specchi e pareti di vetro, per dare l'idea di animali in gabbia, visti da fuori ma incapaci di uscire.

Una questione d'illuminazione
A dirigere la fotografia c'è Andrzej Sekula, fotografo di fiducia di Quentin Tarantino, abilissimo con la gestione delle luci e dei colori. E proprio le luci e le ombre sono un elemento portante di tutta la forma del film che non potrebbe avere lo stesso impatto senza le scelte precise che sono state fatte di concerto tra Sekula e il regista Antal.
Non c'è zona grigia in Vacancy, non c'è spazio aperto possibile. Tutte le immagini che si presuppongono svolgersi all'esterno sono avvolte in un buio pesto, in un'oscurità tagliata da netti fasci di luce (la macchina, i neon, le torce), creando una coerenza claustrofobica anche all'esterno.
“Abbiamo potuto girare senza dover fare i conti con la luce del sole e con le condizioni atmosferiche. Avevamo il controllo completo di ogni angolo del set" ha dichiarato il regista. Ed è proprio la parola "controllo" il punto focale. Girare tutto in un set ha il principale vantaggio di poter controllare anche la luce come sarebbe impossibile in veri esterni, e Vacancy si avvale in toto di questa potenzialità, portandola alle estreme conseguenze come lo stesso Sekula spiega: “Non volevamo né riflettere né diffondere la luce. Ho creato come delle chiazze di luce da cui improvvisamente saltano fuori gli assassini. Molto spesso, i personaggi si spostano dalla luce all’ombra e poi di nuovo alla luce”.
Sekula inoltre è anche il creatore delle sequenze snuff che i protagonisti vedono nel videoregistratore della camera d'hotel, sequenze fondamentali. Quello è il momento in cui è chiaro cosa succederà, il punto dal quale nulla sarà più come prima e nel quale è chiaro a tutti (protagonisti e spettatori) che la guerra per la loro sopravvivenza è già cominciata. Le sequenze dovevano non solo essere realistiche e documentaristicamente spaventose ma anche apparire come un prodotto di bassa qualità ripreso da videocamere a circuito chiuso. Per fare questo le macchine da presa sono state piazzate come se fossero vere videocamere a circuito chiuso cioè in modo da riprendere tutta la stanza, senza lasciare buchi possibili. Poi il girato in alta qualità è stato montato e rimontato per farlo sembrare frutto di un vecchio VHS.

Infine il racconto
Ma a tirare le fila di tutto, a differenziare il film dai suoi omologhi di qualità inferiore c'è la narrazione. E' la capacità e la volontà di costruire un racconto che sia totalmente incentrato sull'azione e sul racconto dei fatti, considerando sempre i personaggi come funzionali. E' questo ciò che meraviglia di più in Vacancy.
Il film incornicia in maniera stretta e precisa la terribile disavventura della coppia protagonista, comincia al cominciare dei loro problemi (prima sbagliano strada, poi la macchina dà problemi) e finisce con la fine (per un verso o per l'altro) della caccia all'uomo nel motel. Non c'è prologo e non c'è epilogo, la vicenda narrata non è inquadrata in un contesto storico o sociale particolare, potrebbe essere un qualsiasi luogo di provincia americano in un qualsiasi momento della storia recente. E' il vero incubo, quello che non ha spiegazioni e non ha introduzioni ma comincia con l'angoscia crescente e si interrompe di botto quando non ci sono più motivazioni di angoscia.
Anche il racconto dell'amore tra i protagonisti, cosa solitamente scontata e un po' banale in questo genere di film, è particolarmente convincente e finalmente non è solo un dovere istituzionale ma un piacere che si riserva il regista.
Per finire le figure archetipe, le persone comuni coinvolte in un'esperienza fuori dal comune, tipi da città costretti per la prima volta a lottare per la propria sopravvivenza senza un motivo, sono finalmente solo un punto di partenza e non di arrivo. L'uso di caratteri tipici non è una facile soluzione ma una scelta stilistica. La coppia inizia come tutte le coppie scoppiate del cinema e nel corso del film si riconcilia in una maniera intima e particolare denunciando l'unicità della loro storia.

da MYMOVIES.IT del 19/07/07

16.7.07

Il quinto Harry Potter, una maratona di effetti speciali

Una gara di resistenza
Se i film fossero discipline sportive ogni film della saga di Harry Potter, per l'utilizzo continuo, massiccio e accurato degli effetti speciali, sarebbe una maratona a sè.
Più in evidenza dei film della saga di Il Signore Degli Anelli (dove ad un certo punto molto soluzioni vengono date per scontate) e con più inserti di qualsiasi film di fantascienza (dove come nella vita reale la tecnologia tende a sostituire la magia) i film di Harry Potter ogni volta sono un vero tour de force degli effetti visivi.
Nel cinema molto spesso gli effetti speciali sono utilizzati per realizzare ambientazioni e dare un certo respiro alle situazioni, in un modo quindi che risulta invisibile allo spettatore medio, e solo in qualche caso sono il centro dell'azione e dell'attenzione dello spettatore. In Harry Potter invece gli effetti speciali sono quasi sempre il fuoco della scena, quasi sempre dunque gli occhi del pubblico sono puntati su di loro.
Per questo ogni Harry Potter è una lunga maratona, una gara lunga nella quale non ci si può mai distrarre e nella quale in ogni momento occorre impegnarsi al massimo

Questioni di scenografie e di colori
Per il quinto episodio della saga, Harry Potter e l'ordine della fenice, la regia passa da Mike Newell a David Yates ma rimane immutata l'atmosfera cupa e dark, segno della direzione che ha preso l'evoluzione della saga. Oltre a questo i due episodi sono collegati anche a livello tecnico, molti personaggi e situazioni infatti si ripetono e quindi necessitano del medesimo team tecnico e della medesima realizzazione.
Data l'atmosfera più cupa e seriosa questa volta manca il tripudio di piccoli effetti, piccole magie ed esseri soprannaturali che dominava ogni scena nei precedenti episodi, molto del film è affidato alle scenografie (costruite dal vero e in digitale) e ai colori e meno alle componenti aggiuntive. Le inquadrature sono decisamente meno dense del solito, si opta per un deciso minimalismo, anche nello strutturare quegli ambienti fino ad ora inediti.
Uno dei pochi effetti "episodici" in questo senso è quello della faccia di Sirius Black (Gary Oldman) che appare nel fuoco. La realizzato inizialmente doveva prevedere la fusione di fuoco reale e di una ripresa fatta davanti ad un bluescreen del viso di Gary Oldman, ma dato che era necessario un movimento di macchina si è optato per l'uso del motion capture.
Gary Oldman ha quindi recitato la sua parte davanti a cinque macchine da presa disposte intorno a lui a 180°, le quali hanno catturato i suoi movimenti per applicarli all'animazione del fuoco. Poi per aggiungere credibilità al tutto la superficie del viso è stata mischiata con ceneri e particolari del viso che cadono sul fuoco.

I Dissennatori animati sott'acqua
Una delle realizzazioni migliori del film però possono essere considerati i Dissennatori, le creature dalle fattezze semiumane che agiscono per volere del ministero della magia. La loro realizzazione è stata affidata all'Industrial Light And Magic (sono stati molti e diversi gli studi impiegati nella lavorazione del film), che ha adottato un sistema ibrido. Per dare idea del movimento lento e spettrale dei Dissennatori infatti hanno utilizzato le immagini di un pupazzo ripreso sott'acqua. Queste poi sono state modificate aggiungendo le vesti spettrali animate con un consueto software di animazione per vestiti avendo però l'accortezza di rallentare tutti i movimenti per accordarli a quelli rallentati del pupazzo sott'acqua.
Oltre all'Industrial Light And Magic però il merito va anche ad Alfonso Cuaròn, regista del terzo episodio della saga, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, nel quale questi personaggi fanno la loro comparsa per la prima volta, che per primo ha preso la decisione di rappresentarli come esseri che si muovono molto lentamente e non in maniera frenetica come era previsto da principio. Cuaròn disse: "Questi sanno che ti prenderanno e non hanno la minima fretta. Si muovono lentamente, come fossero dei reali. Una forza inarrestabile".

L'irriconoscibile Ralph Fiennes
Ma il cuore di tutto è chiaramente Voldemort, il signore del male, colui che non può essere nominato, che fa la sua comparsa nell'episodio precedente ma che ha il suo ruolo decisivo anche in questo film.
Voldemort è la classica figura maligna carismatica, la cui comparsa è centellinata perchè meno si vede più è spaventoso. Dunque quando è in scena deve essere all'altezza delle aspettative.
Come spesso è accaduto nella storia del cinema, il male viene reso attraverso una forma umana deforme, una sorta di deviazione dalla normalità che rifletta la deviazione interiore. La base è chiaramente Ralph Fiennes, a cui oltre al trucco vengono applicate delle modifiche in post produzione, come per esempio l'impossibile naso inesistente.
In questi casi lo sforzo è tutto nel creare continuità tra la parte del viso modificata (il naso) e il resto della faccia, continuità nella forma e nel colore. C'erano dunque nasi sudati, nasi raggrinziti, nasi rilassati, illuminati, all'oscuro ecc. ecc. da applicare in tutte le possibili situazioni...

Il castello di Cagliostro, momento fondamentale per Lupin e Miyazaki

Un incrocio di talenti in erba
Il personaggio di Lupin III nasce come eroe di una serie a fumetti scritta nel 1967 da Monkey Punch (il cui vero nome è Kazuhito Kato) ma quello che conosciamo meglio in realtà gli somiglia poco. Il look e il lavoro sono quelli ma è il carattere, gli obiettivi e il modo di perseguirli a differenziarlo dall'originale, questo perchè Lupin ad inizio anni '70 è passato attraverso le maglie dell'immaginazione e delle ossessioni di Hayao Miyazaki, autore oggi di culto ma allora alle prime armi. Gestione della quale Il castello di Cagliostro rappresenta il punto più alto.
Il primo lungometraggio d'animazione di Hayao Miyazaki è infatti una vera perla nel panorama del cinema d'animazione giapponese alla quale hanno partecipato alcuni personaggi che sarebbero poi diventati autori di culto. Si tratta dello sceneggiatore Haruya Yamazaki (Rocky Joe, L'Isola Del Tesoro, Cobra e Capitan Harlock), del grandissimo compositore Yuji Ohno (lo stesso della serie televisiva e assiduo collaboratore anche del maestro Osamu Tezuka), e del direttore artistico Shichiro Kobayashi (che già aveva lavorato per Berserk, Rocky Joe, Kimagure Orange Road, Lamù Beautiful Dreamer e Venus Wars). Un incrocio di competenze artistiche assolutamente fecondo coronato dalla direzione di Miyazaki a quasi 10 anni dall'inizio della prima serie animata alla quale aveva dato vita assieme a Isaho Takahata (Una Tomba Per Le Lucciole).

La trasformazione di Lupin da Monkey Punch a Miyazaki
Lupin III nasce dalle passioni esterofile di Monkey Punch che, molto poco legato al tipo di narratività e di fumetto che si faceva nel proprio paese, cercava ispirazione nei miti europei, in particolare l'Arsenio Lupin di Maurice Leblanc e il James Bond di Ian Fleming.
E dall'incrocio di queste due figure nasce infatti il personaggio di Lupin, vestito all'occidentale con la caratteristica giacca (il cui colore scandisce le diverse serie televisive) e la cravatta con fermacravatta, dotato di carisma, sicurezza in se stesso, abilità manuale e geniale intuito ladresco.
A queste caratteristiche primarie se ne aggiungono altre al momento della strutturazione della prima serie animata ad opera di Hayao Miyazaki e Isaho Takahata (come per esempio la 500 giallo canarino) e una diverso mood, più scanzonato e fiabesco. Aria che si respira a pieni polmoni in Il castello di Cagliostro e che lo rende una vera mosca bianca nel panorama della produzione dedicata al personaggio.
Nonostante infatti siano passati 10 anni dalla serie che aveva diretto, Miyazaki riprende la sua idea di Lupin e la applica nuovamente in un lungometraggio (il secondo per l'eroe giapponese) che si distacca totalmente dai consueti percorsi di Lupin III. La trama più incentrata sulle aspirazioni e i sentimenti di Lupin e meno sul colpo in sè o su tematiche e svolgimenti adulti che lascia in secondo piano tutti gli altri soliti comprimari (Jigen, Goemon, Fujiko e Zenigata), ne sono l'esempio più lampante.

La fortuna di Il castello di Cagliostro
Nel tempo il successo del film è cresciuto a dismisura, ben oltre le aspettative e le intenzioni iniziali degli autori e dei produttori.
Il castello di Cagliostro è stato nominato consecutivamente per 5 anni miglior film dai lettori della rivista Animage e la protagonista femminile, Clarissa, come miglior eroina (questo fino a che non è arrivato il secondo lungometraggio di Miyazaki Nausicaa della valle del vento a spodestare i due record), Steven Spielberg si è dichiarato più volte grandissimo fan del film, immagini di Lupin III tratte da questo film compaiono come citazioni in diversi film e serie televisive, ne sono stati tratti alcuni videogiochi e il successo ha causato il ritorno del regista alla direzione della serie animata per due episodi speciali.
Si tratta di tutti dati che rendono sempre di più l'idea di come Il castello di Cagliostro non sia solo un buon film su Lupin ma qualcosa di più e quasi di altro. Un simile trionfo va oltre il personaggio, specialmente considerando la maniera poco convenzionale con cui questo viene trattato e approfondito nel film. La personalità del regista infatti invade il terreno del ladro internazionale rendendolo più romantico, sognatore e meno cinico e adulto. Il Lupin di Miyazaki è decisamente molto più fiabesco di quello a cui siamo abituati, molto meno materialista, più romantico e sognatore. Non a caso intreccia una storia con la bella ed eterea Clarissa (il tipico personaggio miyazakiano) e non la più classica e provocante Fujiko.

da MYMOVIES.IT

Cemento armato, "Un western metropolitano"

"So cosa significa essere cresciuta nella periferia romana per questo ho subito capito cosa ci voleva per interpretare Asia, una ragazza qualunque che vive in un contesto di teppistelli che fanno bravate in continuazione mentre lei vorrebbe una vita semplice", è una Carolina Crescentini molto lontana dai toni leggeri e briosi di Notte Prima Degli Esami Oggi e della sit-com Boris quella che parla del suo personaggio in Cemento Armato, il film in uscita il prossimo autunno (il 5 ottobre), che riunisce autori e attori della serie Notte Prima Degli Esami.
Oltre a lei infatti i protagonisti del film sono Nicolas Vaporidis e Giorgio Faletti mentre Marco Martani e Fausto Brizzi si sono scambiati i ruoli, la sceneggiatura è sempre scritta a quattro mani (con l'aiuto stavolta di Luca Poldelmengo) ma alla regia è passato Martani.
Ma le similitudini si fermano qui, Cemento Armato è un western metropolitano (come lo ha definito il regista) dalle atmosfere molto lontane dalle commedie sentimentali girate in precedenza dalla premiata ditta messa insieme dai produttori Federica e Fulvio Lucisano e la prima avvisaglia del cambio di registro la dà proprio Carolina Crescentini che si presenta con capelli nero corvino: "Lo voleva il regista, serve per differenziarmi dai miei altri ruoli e poi mi ha anche aiutato a sentirmi diversa".
Nel film Carolina è la fidanzata di Diego (Vaporidis) un ragazzo semplice cresciuto in un ambiente difficile, la borgata, che una bravata fa scontrare con il male puro, un boss della delinquenza locale, un palazzinaro senza scrupoli noto con il soprannome di "il Primario", interpretato da Giorgio Faletti. Non viene svelato molto altro della trama ma è chiaro che tutto ruota intorno all'ossessione che il boss sviluppa verso questi due ragazzi.
Martani sostiene di aver cercato il noir nella Roma delle borgate sia in quelle più belle (Pigneto e Garbatella), simbolo della vita semplice, che nelle più brutte, quelle infestate dagli abusi edilizi e dal cemento armato del titolo, simbolo dell'universo criminale del Primario dove è facile morire e difficile amare e dove verranno inevitabilmente trascinati i protagonisti.
"Asia e Diego sono la tipica coppia di borgata che litigano un giorno sì e l'altro pure, una coppia de core, quelli che vedi in motorino accapigliarsi al semaforo" continua a spiegare Carolina Crescentini, che per interpretare questo ruolo si è soffermata più che altro sui dettagli "Già il film è carico di emozioni, non volevo sovraccaricarlo ulteriormente, per questo mi sono guardata in giro, ho guardato molto i coatti cercando i dettagli e ne ho trovati mille!".
Non si è potuto invece ispirare direttamente a nessuno Giorgio Faletti per il suo personaggio freddo e spietato, uno che si è fatto da solo, che è arrivato ai vertici della cupola e ormai demanda tutto, un personaggio a cui il romanziere/attore ha contribuito a dare forma: "Nelle prime sceneggiature c'erano dei momenti in cui apostrofava una donna riferendosi a lei con delle classiche parolacce da strada ma col regista abbiamo sentito l'esigenza di levarle, perché usarle per lui significa declassarsi. E' il male assoluto e un diamante nero che non si abbasserebbe mai ad usare un frasario da uomo della strada".
Eppure nonostante la fatica di calarsi in un ruolo così lontane dalle sue più classiche performance comiche Faletti ha lo stesso realizzato quello che era un suo sogno: "Ho sempre desiderato fare il pistolero in un western, in questo momento quindi mi sento abbastanza appagato. Non c'è stato il classico duello ma lo stesso il film sembra davvero un western metropolitano".
Di tutt'altro tipo invece il personaggio di Nicolas Vaporidis, finalmente lontano dallo stereotipo giovanilistico del ragazzo impacciato in cui sembrava intrappolato. Nelle sue stesse parole il suo Diego "è uno che vive di estremi, non è un cinico o un calcolatore, non è un eroe nè un killer. E' un ragazzo normale che viene travolto da un destino più grande di lui".

da LA REPUBBLICA del 6/7/07

28.6.07

Cinque studi di effetti speciali per quattro super eroi più Silver Surfer

Una compagnia diversa per ogni personaggio
Per il secondo capitolo cinematografico delle avventure dei Fantastici Quattro, la produzione ha confermato la squadra vincente del primo film continuando con l'idea, che si sta diffondendo sempre di più negli ultimi tempi, di avere team di tecnici diversi al lavoro su elementi diversi del film. Dunque anche per I Fantastici Quattro e Silver Surfer ogni personaggio è stato curato da uno studio di effetti speciali differente, in modo che si potesse lavorare in parallelo e che non fossero mai usate due volte le medesime soluzioni di animazione.
Poche dunque le differenze di resa visiva rispetto al primo episodio, come i ritocchi e le migliorie alla fiamma della Torcia Umana e altri piccoli particolari inseriti a furor di popolo, come ad esempio le sopracciglia rocciose della Cosa, che mancavano nel primo film ed invece sono una caratteristica fondamentale del personaggio nei fumetti.
Tuttavia il personaggio più interessante dal punto di vista della realizzazione tecnica continua a rimanere la Donna Invisibile.

Invisibile come il vetro
Molti sono stati i problemi da risolvere per la messa in scena della Donna Invisibile, innanzitutto perchè si tratta di una delle attrici più importanti del film che quindi non può non essere in scena per la gran parte della pellicola e poi perchè l'invisibilità è un concetto con il quale il cinema si misura fin dai suoi esordi attraverso mille possibili declinazioni e mille trovate differenti.
Questa volta il compito era dunque non solo di staccarsi da ciò che è stato fatto in precedenza creando un concetto di invisibilità cinematografica differente (anche se comunque debitrice alle trovate estetiche presenti nel fumetto) ma anche mantenere la riconoscibilità di Jessica Alba.
La soluzione è arrivata paradossalmente pensando a come viene spiegato il potere della donna invisibile nei fumetti. Secondo le teorie di Reed Richards infatti la moglie diventa invisibile poichè riesce a creare attorno a sè un campo che non rifrange la luce, da questo i tecnici hanno provato a pensare a quali materiali o a quali oggetti nella realtà si comportino in questo modo e sono così arrivati alla soluzione di far sembrare il corpo di Sue Storm come fatto di vetro. In questo modo gli spettatori possono ancora vederne i contorni e le fattezze (come accade nei fumetti) pur capendo al volo che in realtà per i personaggi del film è qualcosa di invisibile.

Silver Surfer "ossidato"
Ma la vera novità del film era chiaramente Silver Surfer, personaggio attesissimo che ha richiesto un massiccio intervento tecnologico. In questo caso il problema era di ordine narrativo, non solo infatti Silver Surfer doveva essere riprodotto in maniera fedele al fumetto ma doveva anche esserci una marcata differenza nella sua apparenza tra quando è a bordo della sua tavola e quando ne viene privato.
La prima scelta è stata quasi obbligata: il personaggio doveva essere necessariamente tutto animato in digitale (con l'aiuto del motion capture dell'attore Doug Jones, che già era stato il mostro senza faccia di Il labirinto di Pan) poichè questo era decisamente più semplice che utilizzare un attore vero e aggiungere effetti speciali alle moltissime sequenze altrimenti irrealizzabili. Così il personaggio è stato messo nelle mani degli animatori, i quali sapevano che Silver Surfer avrebbe subito una modifica estetica lungo il film per far capire che quando non è in possesso della tavola perde molte delle sue qualità.
Data la natura argentea di Silver Surfer si è optato per farlo apparire come "ossidato" quando privo della tavola, l'equivalente per l'argento dell'invecchiamento per gli uomini, sinonimo quindi di debolezza, affaticamento e in generale di peggioramento delle condizioni.

da MYMOVIES.IT

Transformers tra modelli reali e creazioni al computer

La trasposizione cinematografica di un prodotto di culto
I Transformers sono un tipico esempio di prodotto culturale declinato attraverso vari media: fumetti, cinema, televisione, merchandising. Si tratta di un brand creato dalla Hasbro decenni fa e che ha imperversato dall'America al Giappone in diverse maniere nell'immaginario collettivo. Già finiti al cinema una volta con un lungometraggio animato, ora ritornano nelle mani di un forte produttore (Spielberg) e di un regista da botteghino (Michael Bay) per il classico blockbuster ad alto tasso di effetti speciali.
E come spesso accade per le produzioni più importanti (specialmente per quelle dietro le quali c'è Steven Spielberg) gli effetti speciali sono stati affidati alla Industrial Light And Magic, lo studio numero uno del settore, che ancora una volta ha fatto un lavoro assolutamente senza paragoni.
Il problema questa volta era declinato in diverse dimensioni: rendere la verosimiglianza di robot altri metri e metri, animare con credibile fluidità le trasformazioni e integrarli alla perfezione nelle complesse scene d'azione.

Un casting sui generis
Il cinema di Michael Bay è molto semplice e prevedibile, fatto tutto di effetti al rallentatore, movimenti di macchina vorticosi e circolari e riprese ad effetto dense di elementi spettacolari. Non è stato dunque difficile per gli esperti della ILM prevedere in che tipo di riprese e di ambiente sarebbero entrate le loro creazioni, i loro Transformers virtuali.
Un lavoro che dunque dal punto di vista registico non ha presentato particolari difficoltà, ma che invece è stato molto complesso dal punto di vista dell'ideazione, ovvero la parte a monte.
Innanzitutto è stato importante decidere quali Transformers inserire nella storia: se infatti i classici Bumblebee, Megatron e Optimus Prime non potevano mancare, gli altri erano tutti da decidere. Per non scontentare nessuno, o quantomeno per scontentare il minor numero di persone la produzione ha deciso di procedere chiedendo ai fan quali Transformers avrebbero voluto vedere sullo schermo e poi facendo un sondaggio interno per stabilire (dopo la visione ripetuta di molti episodi della serie) quali erano secondo i membri della troupe che avrebbe dato vita al film i personaggi più interessanti. La fusione dei due sondaggi ha decretato il cast finale.

Le necessarie differenze tra un cartone e un film
Ma ancora più importante della scelta di quali robot inserire nel film è stato fondamentale scegliere in quale maniera i robot sarebbero stati resi sullo schermo, quanto cioè sarebbe stato necessario allontanarsi dalla versione televisiva dei personaggi. L'idea era naturalmente di rimanere il più fedeli possibile, sempre per non scontentare i fan, ma i film necessariamente hanno esigenze diverse dei cartoni e le rappresentazioni di questi ultimi erano troppo semplicistiche per reggere il confronto con la realtà. A differenza delle serie animate infatti i robot del film di Michael Bay dovevano necessariamente sembrare verosimili.
Per fare un esempio l'Optimus Prime della serie animata è abbastanza rigido nei possibili snodi e movimenti, mentre quello del film si compone di 10.108 parti differenti tutte quante animate separatamente. E se i momenti in cui i robot si trasformano sono stati i più semplici da realizzare (e anche quelli per i quali gli animatori si sono potuti sbizzarrire con le soluzioni più creative) quelli più complessi sono stati di converso i momenti in cui i robot si devono muovere realisticamente, perchè come sempre sono i movimenti di stampo umano i più complessi, quelli con i quali abbiamo più dimestichezza e conosciamo meglio.

Il realismo delle superfici
Ma non è tutta animazione computerizzata quella che si vede in Transfomers.
Come alcune foto scattate sul set e girate in rete prima dell'uscita del film hanno dimostrato, esistevano anche delle ricostruzioni reali dei giganteschi robot, utili per le scene in cui questi non devono muoversi e vengono avvicinati dagli umani.
Il problema in questo caso era di non far notare allo spettatore medio lo stacco tra le scene in cui il robot è una creatura computerizzata e quelle in cui si tratta di una ricostruzione dal vivo. Obiettivo che gli specialisti della fotografia e della ILM centrano perfettamente. Infatti solamente un occhio esperto di rende conto della differenza tra le scene con robot virtuali e quelle con modelli reali.
Questo accade grazie alla complessità delle texture, ovvero quei "motivi" o "trame" che riempiono le superfici. Quando bisogna disegnare al computer un modello 3D di un qualsiasi oggetto che sembri reale non si può dare alla sua superficie un colore unico come si farebbe in un cartone animato, perche nella realtà le superfici hanno diverse sfumature a seconda del materiale di cui sono composte o di come la luce vi batte. Per questo vengono usate le texture, disegni che imitano una superficie tridimensionale che può essere una corazza di metallo come un tipo di terreno.
Nel caso dei Transformers le texture applicate alle corazze di metallo erano talmente accurate e definite nei minimi dettagli (specialmente per quanto riguarda il colore e la gestione del riflesso della luce) da essere quasi indistinguibili dagli equivalenti reali. Un vero passo avanti per questo genere di animazione.

da MYMOVIES.IT del 27/06/07

20.6.07

Quanti Surface prima di Surface

Roma - Se Milan, il surface computer di Microsoft, ha segnato un passo in avanti nell'evoluzione delle interfacce grafiche, lo stesso non si può dire dal punto di vista della progettazione dell'hardware. Infatti l'idea di un computer che stia sotto un tavolo è qualcosa che gira nell'aria da molto tempo, come già avevano dimostrato, ad esempio, le idee di Nolan Bushnell. Tanto che anche in Italia abbiamo i nostri esempi di computer da tavolo, o tavoli da computer, dedicati all'intrattenimento.
Ci aveva lavorato su Carmelo Civiesse, che ha ideato, progettato, realizzato e ora sta cominciando anche a distribuire un computer da tavolo che funziona con il tocco da installare in locali come ristoranti, pizzerie e pub e che ha il doppio intento di agevolare le ordinazioni e intrattenere i clienti. Infatti, una volta ordinato da mangiare o da bere attraverso il monitor, sotto la superficie del tavolo si riceve un credito che dà diritto ad usufruire dei giochi o degli altri servizi (come la chat, la selezione di canzoni per il video jukebox, la stampa delle foto direttamente dal telefonino via bluetooth).
Si tratta di uno schermo LCD da inserire al di sotto del vetro (un centimetro di cristallo temperato) del tavolo, in modo da proteggerlo dallo sporco e dall'unto, e che ha sotto di sè un case customizzato per non dare fastidio. Per il resto dunque è un normale computer equipaggiato con Windows XP e in grado di far girare il software messo a punto sempre da Carmelo Civiesse.
L'idea potrebbe sembrare (soprattutto per le potenzialità) il fratello minore di quanto stia facendo Microsoft, ma Civiesse non è d'accordo: "Microsoft ha fatto un prodotto diverso dal mio, anche se è sempre per i locali pubblici: loro hanno creato un po' un giocattolone. Ancora non si capisce bene a che possa servire il multitouch, ci possono fare giusto dei giochini... Noi utilizziamo un tocco solo invece perché non abbiamo sviluppato nessuna tecnologia per l'occasione, giusto l'hardware".

Punto Informatico: A quando risale il vostro progetto?
Carmelo Civiesse: Il progetto è nato qualche anno fa, abbiamo iniziato a svilupparlo all'inizio del 2005 ed era pronto ai primi del 2006. Il primo locale l'ha installato quindi ad agosto 2006. Era un locale campione che ha fatto da tester e adesso stiamo facendo partire la commercializzazione a livello nazionale ed europeo.

PI: Come fa il sistema a discriminare tra il tocco di un dito e l'appoggio di un bicchiere o di un altro oggetto?
CC: Abbiamo due versioni del tavolo, uno con un touchpad come quello dei portatili, un'area di lavoro molto limitata dove si usa il dito, tipo notebook. E poi c'è la versione con il touchscreen che funziona con lo stesso principio del condensatore, con la proiezione capacitiva, cioè non funziona come al solito con la pressione su una superficie ma è in grado di riconoscere il dito creando una capacità tra il dito e lo schermo. Non è quindi una questione di grandezza, ma ha più a che vedere con il fatto che tra le varie proprietà del corpo umano c'è anche quella di essere un conduttore elettrico.

PI: Come avete programmato il software?
CC: Il sistema operativo è Windows XP e tutto il software è stato programmato in Visual Studio, quindi ambiente Microsoft. Si tratta di programmi che possono anche girare in rete (sia ethernet classica o anche wireless).

PI: Vi siete ispirati all'idea che aveva avuto Nolan Bushnell qualche anno fa?
CC: Non lo conosco.

PI: A cosa vi siete ispirati allora?
CC: Quando ero ragazzo, nel 1984 avevo comprato il Vic20 e da quel momento ho sempre pensato che una cosa simile sarebbe stata molto interessante. Ultimamente ho avuto la possibilità di acquistare un locale da uno zio, ho creato questa pizzeria e ho pensato che finalmente potevo realizzare la mia idea.

PI: La sperimentazione come va? Avete incontrato grossi problemi?
CC: Bene, il software è affidabile e la gente lo trova molto interessante; chiaramente attrae più che altro i ragazzi che lo usano soprattutto per la chat o per i giochi come Chi Vuol Essere Milionario. I problemi più grossi che abbiamo incontrato in fase di sperimentazione sono stati nell'ordine di far capire le cose alla gente: anche se siamo in una società piena di tecnologia la gente quando si siede guarda i prodotti in maniera molto distaccata.

da PUNTO INFORMATICO del 20/06/07

8.6.07

Il nuovo corso dell'animazione Disney, con un occhio puntato alla Pixar

Il primo film dalla fusione con la Pixar
Da quando la Disney ha deciso di darsi al cinema d'animazione realizzato interamente al computer ha fatto uscire tre film: Chicken little, Monster house e ora I Robinsons. Di questi tuttavia solo l'ultimo è stato realizzato dopo la fusione con la Pixar, la casa d'animazione numero uno in materia di cartoni animati in computer grafica, già creatori di successi come Alla ricerca di Nemo e Gli Incredibili.
La mossa è stata propedeutica ad un rinnovamento dello stile narrativo della storica casa di Topolino e ad un arricchimento dal punto di vista tecnologico, sperando di poter contare sull'esperienza e l'abilità dei tecnici Pixar, cosa che si è verificata solamente in parte. Se infatti dal punto di vista narrativo I Robinsons è ancora una scimmiottatura degli equivalenti Pixar dal punto di vista tecnico invece i passi in avanti sono stati giganteschi e tutti nella direzione indicata dallo studio di Steve Jobs.

Scorciatoie per aggirare il problema di animare personaggi umani

Già tra Chicken little a Monster house c'era una netta differenza realizzativa, anche perchè il secondo era stato realizzato avvalendosi del motion capture facciale, cioè animando le espressioni dei visi dei protagonisti con i movimenti reali di attori reali che venivano "catturati" con appositi sensori. Una differenza che era dunque attribuibile ad un cambio di tecnica, ma ora, tornati al disegno computerizzato non aiutato dalla cattura dei movimenti, la Disney ha dimostrato di aver incorporato e usufruito dell'esperienza e della tecnica Pixar.
Lo si vede innanzitutto dai tempi, I Robinsons è stato realizzato in molto meno tempo di Chicken little e molto meglio, segno che c'è stata una forte ottimizzazione, specialmente in un'area (l'animazione di personaggi umani) che notoriamente è la più difficile. Non solo infatti è complesso rendere con il disegno computerizzato la varietà e la fluidità dei movimenti del corpo umano ma è anche qualcosa di cui tutti gli spettatori (anche i meno tecnologici) hanno una forte esperienza e sono quindi in grado inconsciamente di riconoscere subito quando un'animazione non è buona.
Per questo uno dei trucchi più usati è disegnare i personaggi in maniera poco realistica e più fumettosa. Lontani i tempi in cui il disegno a mano consentiva animazioni come quella di Biancaneve e i sette nani o La carica dei 101, dove i personaggi sono disegnati in maniera realistica, ora l'imperfetto disegno computerizzato per animare i personaggi è costretto ad usare la scorciatoia del fumetto, cioè creare personaggi che siano umani ma non debbano necessariamente somigliargli in tutto e per tutto, riducendo così l'identità tra i movimenti che percepiamo tutti i giorni e quelli che vediamo su schermo.

Un film pensato direttamente in 3 dimensioni
Altra caratteristica di I Robinson è quella di essere stato il primo film Disney pensato per la proiezione 3D. Già gli altri film infatti erano stati distribuiti in sale equipaggiate per la proiezione in tre dimensioni ma si trattava di versioni adattate. In solo un anno infatti si è passati dalle quasi 80 sale equipaggiate con proiettori tridimensionali che hanno ospitato la versione adattata a tre dimensioni di Chicken little, alle 162 che hanno potuto offrire l'adattamento 3D di Monster house, fino alle 600 che a marzo hanno ospitato l'ultima fatica in tre dimensioni della Disney. E questa volta come detto non si è trattato di un adattamento ma di un cartone che per la prima volta è stato scritto e pensato già sapendo che ne sarebbe uscita una versione tridimensionale.
Questo ha consentito la pianificazione e la creazione di suggestioni ed effetti assolutamente originali, lo spiega Phil McNally del team dell'animazione: "Abbiamo scritto una sceneggiatura per l'intero film tenendo ben presente la profondità di ogni scena, in modo da usare il 3D per rendere più suggestiva la narrazione. Per esempio abbiamo sottratto profondità alle immagini fino a che Lewis non arriva nella città del futuro, dove al contrario l'abbiamo aumentata moltissimo. Certo il pubblico non deve accorgersi di questi cambi, deve semplicemente avere l'impressione di essere catapultato in un mondo ancora più vasto".

da MYMOVIES.IT del 7/06/07

4.6.07

RECENSIONE Turistas

Un gruppo di turisti provenienti dal mondo ricco (Australia, Stati Uniti e Inghilterra), messi insieme da un incidente con il bus che li porta attraverso il Brasile, finiscono su una spiaggia dove bevono e ballano fino al mattino, quando, risvegliati da un sonno innaturale, si accorgono di essere stati drogati e derubati. Da qui inizia il loro inferno personale nella giungla brasiliana dove capiranno ben presto che non c'è via d'uscita e nella quale rischiano di essere preda di un trafficante di organi che li espianta a turisti ricchi per donarli a bambini poveri.
Con poco gusto per il gore e lo splatter (presente solo a tratti) e una decisamente più spiccata propensione alla costruzione della tensione, John Stockwell confeziona novanta minuti tirati nei quali l'umido scenario dei paradisi brasiliani diventa da subito (fin dal problematico viaggio in bus) un inferno, facendo leva sapientemente su molte delle paure inconsce dei turisti.
Se l'idea del gruppo di persone impossibilitate a sfuggire ad aguzzini che operano nel loro territorio al di fuori della legge è uno spunto classico, Turistas lo declina in una dimensione inedita, il turismo di massa, e con molta intelligenza e sapiente uso dei propri mezzi. Anche le scene migliori (come il bellissimo l'inseguimento mozzafiato sott'acqua) non giungono mai gratuitamente e fini a se stessi, ma si inseriscono in un preciso meccanismo. In più la fotografia sgranata, la macchina da presa poco mobile e molto invisibile, l'uso del sonoro e infine quello di una miscelazione dei colori che si adatta di scena in scena, fanno fare un deciso salto in avanti al film che da una struttura di serie B (asciutta, rapida e senza preamboli o lunghe code finali ma incentrata unicamente sugli avvenimenti fondamentali) tira fuori una bella divagazione sulle fobie umane al pari di altri film cult in materia come The hitcher, Detour o Cuba Libre.
Il film è stato molto osteggiato dal governo brasiliano, per nulla contento dell'immagine che emerge del suo paese (anche se il finale riserva una concessione ai buoni brasiliani anche un po' fuori luogo), criticando uno degli aspetti invece più interessanti dell'opera cioè il voler mostrare (senza crearsi problemi o limitazioni) una realtà senza scampo dove l'uomo è ancora il lupo dell'uomo nel senso più fisico del termine e dove le motivazioni sociali (il medico espianta organi ai turisti come contrappasso per il commercio illegale che i loro paesi fanno di organi dei poveri brasiliani) sono marginali e non costituiscono nemmeno una parziale giustificazione.


da MYMOVIES.IT

Musica, gli italiani che scelgono le CC

Roma - "Ho scelto di distribuire la mia musica sotto licenza Creative Commons perché è un'opportunità per conoscere e per dire: io ci sono", questa è una delle tante risposte ottenute da Punto Informatico indagando tra le migliaia di musicisti indipendenti che hanno scelto siti che distribuiscono musica con modalità alternative, nuove piattaforme per farsi sentire, per conoscere altri artisti e per ottenere subito il feedback degli appassionati di musica.

Dalle prima indagine appare anche evidente che se qualcuno sceglie le licenze CC perché simbolo del copyleft e di un nuovo modo di fare cultura, altri la vedono esclusivamente come una opportunità: la CC ben si adatta a nuovi modelli di distribuzione. Non è un caso se pressoché tutti si dicano fin qui soddisfatti dei "jukebox" in CC, spesso vissuti come uno dei più importanti ma non l'unico mezzo di interazione con gli appassionati di musica in rete.

Di tutto questo Punto Informatico ha parlato con numerosi musicisti, qui si raccolgono le risposte che ci hanno fornito Danilo Taddei, iscritto alla SIAE da 10 anni e solo da poco nel mondo della distribuzione alternativa nel quale ha portato tutti i propri lavori, Antonio Sacco, DJ dal 1981 che gradualmente è passato alla produzione grazie alle nuove tecnologie, e Djblaster AKA Danilo Sanfilippo che si dedica quotidianamente alla musica, la sua principale forma d'espressione.

Punto Informatico: Distribuire sotto Creative Commons attraverso piattaforme alternative. Cosa ritieni di aver guadagnato da quest'esperienza?
Antonio Sacco: Ho pubblicato il mio materiale da poco, in quattro giorni in linea una quarantina di persone hanno cominciato a scaricarlo e a condividerlo, più un blog che mi ha recensito, quindi tutto per ora è positivo, è il mondo che ti segue e ti osserva. Sono rimasto molto stupito del successo che ho avuto. Per adesso lo faccio solo per capire qual è il feedback degli ascoltatori, non c'è ancora l'ambizione di fare business. Anche se già si sono fatti avanti un paio di grossi distributori per mettere in commercio le mie cose, e questo mi sorprende in maniera positiva, perché chi ascolta c'è! Invece con la precedente distribuzione trovavo solo una parte dell'attenzione da parte della gente, e per chi fa musica l'obiettivo numero 1 è farsi ascoltare.

Danilo Taddei: Di guadagnato niente, ma tanto nemmeno mi ci sono informato, tanto devo comunque fare un altro lavoro... Il nome è girato un po' poco, ma ho avuto contatti con persone che hanno fatto dei podcast (poi bisogna pure valutare la validità di quello che faccio) ma mi sembra ancora poca cosa... Però devo dire che l'idea è bellissima e funziona benissimo... Si vede che c'è un lavoro grosso dietro. Poi loro (le piattaforme distributive, ndr.) hanno operatori interni, ti mandano i consigli, ti chiedono di fare ascolti, c'è insomma tutto un movimento interno.

Danilo Sanfilippo: È andata molto bene! Basta chiedermi formalmente il permesso di utilizzo e il pezzo puo' girare senza dover pagare alcunché. In più il mio nome è girato molto soprattutto grazie a Jamendo e a tutti i podcaster che trasmettono canzoni esclusivamente CC (come nissardo e paolo bianchi). Ci ho guadagnato di sicuro la possibilità di girare in vari podcast formalmente senza alcuna burocrazia e mi sto facendo anche tanti amici competenti. Però ancora non ho avuto alcuna sovvenzione.

PI: Che piattaforme utilizzi per veicolare la tua musica?
Sacco: Per ora siti come Jamendo e sto per contattare anche Magnatune. Volevo lasciare anche a loro le mie cose. Poi la mia prossima idea è di prendere uno spazio su MySpace e vedere che succede, ma non ho troppa fretta anche perché Jamendo mi sta sorprendendo in maniera positiva.

Taddei: Prima mettevo gli mp3 sul sito e chi voleva se li scaricava, poi con Jamendo ho trovato un modo per inquadrare la cosa, ti prendi la licenza CC, ti danno il lettore da mettere sul blog e poi ti consentono di mettere file in formato Wav e non MP3, che ha una qualità migliore. E poi il player è comodissimo. Certo, vorrei affiancare anche una distribuzione più tradizionale ma le radio indipendenti accessibili come Radio Città Aperta sono pochissime, per cui adesso sto iniziando a pensare ad altri canali come MySpace e cose così, ma se dietro non hai spinte più forti è difficile.

Sanfilippo: Conto molto su siti come Jamendo oltre certamente al mio sito personale e a MySpace.

PI: Perché distribuire musica in Creative Commons?
Sacco: Perché adesso usare i canali istituzionali, come si fa di solito, non rende come usare internet. Basta che uno ti scriva una recensione positiva che dietro a lui ce ne sono altri 20 che seguono i suoi consigli: si attiva così un meccanismo piramidale a partire da uno solo. Quindi pure se poco remunerativo dal punto di vista artistico è comunque un mondo fantastico, si raggiungono obiettivi altrimenti irraggiungibili. Poi magari arriva pure il distributore. Prima invece ti dovevi far conoscere, dire cosa proponi...

Taddei: Perché far girare la voce, se ci si organizza il rumore diventa più forte e si spera sempre che i canali che veicolano il rumore lo veicolino davvero e non lo attutiscano. Alla fine è una scelta esistenziale di fruizione libera delle cose, anche perché spesso poi gli introiti di un'artista sono i concerti, gli spot e il CD diventa una cosa minoritaria.

Sanfilippo: Perché il diritto d'autore come è concepito è vecchio e mina la creatività degli artisti emergenti, oltre ovviamente a fermare la libertà di conoscenza ed espressione. La licenza che ho adottato per esempio prevede che venga riconosciuto il merito dell'artista, che non si usi l'opera per scopi commerciali e che si distribuiscano eventuali opere derivate con la stessa licenza. Ho scelto questa perché sposa perfettamente la mia filosofia sulla distribuzione musicale, la proprietà intellettuale vista in modo tradizionale è troppo costrittiva e restrittiva, troppe clausole e burocrazia, la musica va suonata e fatta girare senza intermediari se non l'artista stesso.

PI: La tua è stata una scelta ideologica o di opportunità?
Sacco: Entrambe, le metterei al 50%. È ideologica perché pur mettendo a disposizione i miei brani gratis ho comunque i miei diritti e se qualcuno tra quelli che ascolta trova un sample interessante e lo vuole usare me lo deve chiedere, né si possono fare download commerciali. Ed è opportunista perché voglio farmi conoscere da gente che non avrei mai raggiunto, anche in giro per il mondo. Certo se poi devo dire quanto è costato e quanto ricavo non ha senso dirlo, è il momento di pazientare e vedere se con il tempo questo fenomeno fa il suo corso e c'è qualcuno che prende ciò che metto in rete.

Taddei: Entrambe, perché io da sempre faccio il download gratuito dal mio sito e perché poi mi conviene mettere in linea una cosa finita e con una licenza. È una cosa che ti aiuta ad organizzare tutto il materiale.

Punto Informatico: Hai avuto altre esperienze di distribuzione musicale oltre a quella in CC?
Sacco: Sì, ho fatto i primi due album in maniera istituzionale passando per i negozi e tramite un piccolo centro di distribuzione del centro Italia. Ho messo in piedi un po' di copie, poi date in conto vendita a questa distribuzione ed è andato discretamente, niente di esaltante. Mentre l'esperienza che sto avendo è molto positiva perché il download gratuito è una possibilità in più di aumentare i contatti.

Taddei: Solitamente finito il CD comincio a mandarlo in giro sulle radio e sui canali che ho modo di contattare. Su siti come Jamendo in un giorno fai tutto, mandi, pubblichi, fai la licenza CC ed è tradotto in tante lingue e non ho mai avuto problemi di nessun tipo.

Sanfilippo: no, a parte aver distribuito senza alcuna licenza per i primissimi tempi, ho sempre usato la CC.

PI: L'obiettivo finale rimane comunque la distribuzione tradizionale?
Taddei: Certo uno vorrebbe come lavoro dedicare le giornate a quello che ti piace e non fare l'idraulico dalla mattina alle 7. Quando suoni è perché non potresti non suonare. È ovvio che l'obiettivo è viverci, ma un musicista che vuole fare roba originale può anche morire nell'attesa di emergere, io ho 36 anni e conosco anche altri musicisti ma alla fine nessuno va da nessuna parte: c'è chi apre la scuoletta, chi trova altri stratagemmi...
Non so dire se può reggere da solo o essere solo un trampolino. All'atto pratico non me n'è venuta una lira.

PI: Secondo te quello dei Creative Commons è un modello che potrebbe favorire anche i grandi musicisti?
Sacco: È un quesito al quale ha risposto bene il mentore dei Talking Heads, disse che effettivamente la musica deve essere gratuita e renderla gratuita non esclude la possibilità (un domani) di mantenere i diritti e il giusto guadagno per l'artista. A pagamento devono essere i modi di proporre musica dal vivo che è l'essenza dell'artista.

Taddei: A loro potrebbe sicuramente convenire, ma il problema ormai è che la veicolazione non ha più voce in capitolo nel budget, è tutto promozione: 30 secondi in prima serata constano mezzo miliardo. Poi è ovvio che un artista che invece ha già un nome con il peer-to-peer potrebbe anche ottenere un bacino di utenza infinito. Siamo in una fase di mezzo, non ancora del tutto in Internet, stiamo tutti con un piede dentro e uno fuori, non del tutto convinti.

Sanfilippo: Grande musicista significa spesso grande fatturato e a quei livelli è difficile privarsi di una tutela. Quindi per il momento credo non convenga, dobbiamo aspettare che i giovani di oggi che suonano free diventino grande musicisti, probabilmente a quel punto sarebbe fattibile.

da PUNTO INFORMATICO del 4/06/07

31.5.07

Hollywood promuove l'Italia

“In tutto il mondo il circuito delle copie riprese abusivamente nei cinema costituisce il 90% del materiale pirata distribuito prima dell’uscita. E siamo determinati più che mai a fermare questo fenomeno”, sono le parole di Mike Ellis, direttore dell’area Asia Pacifico della Motion Pictures Association of America, associazione che al momento ha come principale obiettivo la lotta alla pirateria cinematografica, un fenomeno che solo in Italia costa 300 milioni di euro l’anno e negli USA nel 2004 ha causato perdite per 3,4 miliardi di dollari.
All'origine di qualsiasi atto di pirateria infatti c'è sempre una ripresa abusiva, i grandi studios americani lo stanno capendo e sono decisi a bloccare chi riprende abusivamente i film in sala alle prime o alle anteprime.
Per questo l'ultima idea partorita a Hollywood per preservare gli incassi dei loro blockbuster più importanti nel primo weekend nei paesi più grossi (di fatto la variabile dal peso maggiore sugli incassi) è, quando non è possibile la contemporanea mondiale, far uscire i film prima nei paesi a minor tasso di pirateria. Per questo motivo molte delle ultime pellicole americane ad alta aspettativa di incasso non escono per prima cosa negli Stati Uniti. E' stato così per Spiderman 3, sarà così per Transformers ed è stato così anche per l'attesissimo terzo capitolo della saga I Pirati Dei Caraibi, che è andato nei cinema statunitensi solo due giorni dopo l'uscita in altri paesi.
Controlli da aeroporto dunque sia alle prime che soprattutto alle anteprime per la stampa, ogni spettatore è invitato a consegnare tutte le proprie apparecchiature tecnologiche all'ingresso, dove saranno imbustate in involucri isolanti, dopodichè si passa alla perquisizione con il metal detector prima dell'entrata in sala. Una pratica che non piace al pubblico ma che, stando a quanto dichiarato da alcuni membri della security ingaggiata dalla Warner Brothers e dalla 01 Distribution, è utile oltre che efficace. A loro stessi è infatti capitato spesso a di trovare persone che avevano con sè macchine digitali o anche qualcuno seduto in prima fila che riprendeva tranquillamente il film. A scanso di equivoci poi durante tutta la proiezione gli stessi addetti che hanno compiuto le perquisizioni all'ingresso passano continuamente ai lati delle file con i visori notturni per controllare che non ci siano apparecchi in funzione.
Non sono solo le videocamere digitali infatti l’unico mezzo da usare per le riprese ma anche telefoni cellulari di ultima generazione, sufficientemente potenti e capienti da riprendere un intero film e soprattutto più facilmente nascondibili.
Tuttavia nonostante le possibilità offerte dai nuovi telefoni cellulari l’Italia non è tra i paesi a maggior rischio pirateria, anzi è uno di quelli più tranquilli in cui i blockbuster stanno uscendo per primi. I campioni in materia, oltre agli americani stessi, rimangono russi e cinesi (recentemente in polemica con il governo statunitense per la poca attenzione che dedicano alla prevenzione), perché se da noi i telefoni cellulari sono più diffusi che altrove non si può dire altrettanto della capacità di utilizzarli a pieno.
Eppure gli sforzi ancora non sono sufficienti perché a pochi giorni dall’uscita I Pirati Dei Caraibi 3 - Ai Confini Del Mondo era già disponibile in rete in diverse lingue (cosa che non ha comunque impedito al film di diventare il maggior incasso della storia del cinema con 142,5 milioni di dollari solo nel primo weekend). Questo grazie ad un rapido processo in più fasi che si fonda sulla collaborazione dei pirati di diversi paesi.
Ripreso abusivamente in un cinema di Roma il film è già in rete dopo poche ore dalla proiezione in anteprima, dopodichè i primi a che lo scaricano preparano e aggiungono i sottotitoli nella propria lingua o in quella comune (l’inglese) e lo rimettono online nelle diverse versioni sottotitolate. Infine quando poi il film esce in un nuovo paese è sufficiente registrare unicamente l’audio (cosa ancora più facile grazie a strumenti come l’iPod, i piccoli registratori o ancora una volta i telefoni cellulari) e sovrapporlo al video scaricabile in rete per confezionare subito una nuova copia con diversa sonorizzazione pronta per il download.

da LA REPUBBLICA del 31/05/07

25.5.07

Shooting Silvio: il mio film distribuito con le feste

A tutti i registi, magari esordienti e indipendenti, che lamentano difficoltà di distribuzione del loro film, che lamentano costi astronomici a fronte di incassi bassissimi e che non vedono alternative al sistema vigente, a tutti questi risponde Shooting Silvio il film di Berardo Carboni che attualmente è presente in almeno 30 città (e altre ne devono arrivare) grazie ad un sistema totalmente indipendente e low cost di distribuzione.
La promozione è consistita in una serie di espedienti il più originale dei quali (ed anche il più esportabile ad altri film) è sicuramente il sistema Cinedance, ideato dal regista stesso e da Isabelle Arnaud. Si tratta di un sistema che prevede una distribuzione a scaglioni in varie città, in accordo con una tourneé di feste ed eventi musicali. I partecipanti alle feste ricevono ognuno un coupon con il quale possono entrare gratis alla proiezione del film che comincerà ad andare nelle sale di quella città o provincia di lì a pochi giorni. Quindi l'ingresso alla festa costa più o meno quanto un biglietto cinematografico ma dà diritto a due eventi (festa e film). Il guadagno per chi organizza sta nel fatto che al cinema non si va da soli, chi ha il coupon spesso porta altri spettatori paganti, e soprattutto nel fatto che la festa fa da volano: "Per esempio a Bologna abbiamo fatto 700 persone alla festa e di queste solo 120 sono poi andate a vedere il film" dice il regista Berardo Carboni "ma l'affluenza totale al cinema è stata di 1200 persone. Le restanti quindi hanno pagato il biglietto".
In questo modo Shooting Silvio è fin'ora riuscito ad uscire in 30 città con soli 20mila euro di spesa, mentre solitamente i film più piccoli distribuiti dalle case tradizionali escono in circa 20 città con una spesa di 200mila euro e alla fine (secondo Carboni) incassano più o meno la stessa cifra. E sempre secondo il regista il suo film non ha goduto nemmeno di molti veicoli pubblicitari tradizionali, per fare un esempio cita il fatto che Cinematografo, la trasmissione di Gigi Marzullo che solitamente copre anche i film più piccoli, ha rifiutato di occuparsi di questo perchè tratta di un soggetto politico.
Tutto questo rende molto ottimista il team di Shooting Silvio sul futuro della distribuzione, anche se non mancano di rimarcare i problemi che vedono nell'attuale sistema, specialmente riguardo l'autonomia delle sale: "Anche andando a trattare con i singoli esercenti (come abbiamo fatto) rimane il problema dell'esistenza del consorzio Circuito Cinema, che gestisce la programmazione di molte sale (tra quelle votate al cinema autoriale), al punto che i pochi che si ostinano a scegliere indipendentemente che film proiettare sono costretti a subire le minacce e le ritorsioni del responsabile del circuito. Il meccanismo minatorio è semplice: 'se non prendi il nostro film quando lo diciamo noi non avrai più un film del circuito per un determinato periodo di tempo'. In questo modo chi si ribella rischia di rimanere per mesi senza film in prima visione da programmare. Quindi paradossalmente il nostro film è andato solamente nelle sale piccolissime e coraggiose e in alcuni grossi multisala che fanno cinema commerciale (e che quindi sono fuori dal giro di Circuito Cinema) a cui è piaciuto il film".
Non vuol sentir parlare di "cartello" invece Fabio Fefè, di Circuito Cinema, che invita chi fa queste accuse a fare nomi e cognomi: "Nessuno dei locali da me programmati ha mai chiesto di programmare Shooting Silvio in nessuna parte d'Italia, nè tantomeno io ho mai fatto pressioni. Non abbiamo sale sotto il nostro controllo, abbiamo quelle interamente gestite da noi (94 schermi in tutta Italia), e poi quelle per le quali decidiamo la programmazione (25 schermi), non c'è nessun cartello Circuito Cinema. Non siamo gli esclusivisti della qualità, magari lo fossimo! In una città come Roma abbiamo 30 schermi su 250, a Milano 10 su 50, e gli altri? Cinema come l'Adriano, il Barberini, l'Admiral, l'Odeon e l'Arcobaleno non fanno solo il cinema commerciale ma anche il cinema di qualità, basta guardare la loro programmazione".
Tuttavia ci sono alcuni esercenti indipendenti, cioè non legati ad alcun circuito, che hanno difficoltà a reperire film da programmare, lo spiega Fabio Amadei del cinema Farnese di Roma: "Se un film è distribuito da un qualsiasi circuito e io lo voglio proiettare non mi è possibile, anche se la legge me lo permetterebbe, e non so perchè. Se un distributore infatti vuole far seguire il suo film da un circuito sa che dovrà limitarsi alle sale programmate da quel circuito. Io semplicemente non capisco perchè a parità di disponibilità economica i distributori preferiscano una sala da 30 posti invece che una da 300, vorrei che qualcuno me lo spiegasse". Molto più deciso e secco invece il parere di Antonio Sancassani del cinema Mexico di Milano: "Circuito Cinema ha i suoi cinema con le sue case di distribuzione ed è diventato una lobby, su Milano città hanno il 90% delle sale che fanno cinema di qualità. O sei con loro e ti scelgono loro, dicendoti i film che devi fare, o te ne vai e ti arrangi e questo vuol dire cercarsi da solo i film. E io che faccio così se avessi dovuto pagare l'affitto del mio locale forse avrei chiuso".

da LA REPUBBLICA del 19/05/07

La Città Proibita tra cavi e computer

Attenta pianificazione e rigorosa divisione del lavoro
La dimensione di realtà estetizzata dei wuxiapan come La città proibita è vittima del duplice vincolo di sembrare storicamente verosimile pur presentando un mondo di irreale bellezza, un mandato che fa parte del genere fin dalle sue origini quando gli effetti speciali erano costituiti più che altro dalle impossibili evoluzioni dei protagonisti aiutati dai cavi. Ora il wuxiapan mantiene ancora forte questa sua caratteristica pur avendola integrata con effetti digitali più complessi e originali, in grado di andare più in là di una rappresentazione estetizzata della violenza.
Per questo Zhang Yimou e il regista delle scene d'azione Tony Ching hanno deciso di assumere due differenti studi di effetti computerizzati che intervenissero ognuno su una parte sola delle modifiche digitali. Due team il cui lavoro era assolutamente complementare.
Il primo, quello di Frankie Chung Chi Hang che si era già occupato degli effetti speciali di Kung fusion, era incaricato unicamente di occuparsi della rimozione in post produzione dei cavi utilizzati per tenere sospesi a mezz'aria gli attori durante le loro evoluzioni marziali e degli effetti speciali marginali, mentre il secondo, l'americano Moving Picture Co. di Angela Barton, era stato incaricato di occuparsi delle scene di massa (uno dei momenti più importanti del film). Una decisione dovuta probabilmente all'esperienza maturata dallo studio americano durante la lavorazione delle scene di massa di Troy, Alexander e Le crociate.

Le comparse digitali e gli spazi infiniti
Zhang Yimou appartiene a quella schiera di registi che non amano improvvisare e che una volta sul set hanno già in mente tutto quello che deve accadere e come deve essere ogni scena, impresa non semplice al momento di girare sequenze con 800 comparse, per questo lo studio di Angela Barton ha optato per un sistema detto di "preview", cioè tutte le scene più complesse venivano pianificate e simulate prima che si cominciasse a girare, in modo che il giorno delle riprese fosse già chiaro tutto quello di cui ci sarebbe stato bisogno e soprattutto la logistica fosse già preordinata.
"Il set era impressionante" racconta Angela Barson "Abbiamo passato la prima mattinata a camminare in giro sormontati dalle dimensioni del tutto. Poi abbiamo dovuto misurare e fotografare il set per poterlo poi ricreare al computer. Cosa che da sola è stata un lavoro infinito".
L'obiettivo di Yimou era dipingere due armate di porporzioni epiche che si scontravano l'una contro l'altra e poi la disperazione dell'armata ribelle nel momento in cui viene intrappolata tra due fronti e quindi annullata. Per fare questo erano necessarie panoramiche molto ampie che riprendessero le 800 comparse assieme a tutto lo spazio vuoto da riempire con i loro cloni digitali. L'area in questione misurava quanto svariati campi da calcio, per questo alla fine, sempre stando ad Angela Baron, l'effetto è necessariamente artificiale: "Alcune immagini sono così ampie che è ovvio che si tratti di computer grafica. Anche se poi i nostri soldati digitali si mischiano perfettamente con le comparse reali".

La parte più tradizionale del wuxiapan: i cavi
Il reparto rimozione cavi di Frankie Chung Chi Hang invece ha avuto altro di cui lamentarsi, perchè Tony Ching, il regista delle scene d'azione, abbonda nell'uso di cavi e nel loro intreccio, inoltre nell'ottica di un maggiore realismo del film le frecce (chiaramente digitali) dovevano essere molte più di quanto preventivato e dovevano essere usate a più d'una alla volta per colpire le vittime. Dunque un lavoro meno creativo e più manuale, lungo e rognoso.
La sequenza più impegnativa a tal proposito, nonchè poi una di quelle dotate del maggior impatto visivo, è stata quella degli assassini che si calano nella vallata di notte. Innanzitutto per il complicato lavoro di rimozione cavi e secondo perchè ai veri assassini che erano in primo piano (tenuti in aria dai soliti cavi) andavano affiancati quelli digitali nello sfondo senza che si percepisse la differenza tra ciò che è vero e ciò che è finto.

da MYMOVIES.IT

Net Tv, ma dove stiamo andando?

Roma - La Net Tv non ha nulla a che vedere con il viral video o il video sharing più amatoriale, ma è l'insieme dei contenuti di natura televisiva distribuiti in rete, cioè concepiti con un'idea in testa, di breve durata e rilasciati con formule di podcasting su diverse piattaforme. La Net Television infatti usa internet come antenna e il pc come un telecomando ma poi l'interfaccia è molteplice.

Sono questi alcuni dei concetti su cui Tommaso Tessarolo, guru italiano della net television e blogger di lungo corso, ha costruito il suo volume NET TV - Come internet cambierà la televisione per sempre, che questa sera sarà presentato in un singolare evento a Roma, un testo che si propone di dare conto di come la realtà della diffusione del video in rete stia cambiando e sia destinata a cambiare il modo in cui fruiamo degli altri media nonché il modo in cui vengono prodotti i contenuti.

Ora che la Net Tv è una realtà che comincia a manifestarsi, attirando sempre più anche i grandi broadcaster, Tommaso intende iniziare ad ordinare le idee sul video in rete. Poco prima della presentazione ufficiale del libro nell'evento di questa sera, Punto Informatico ha scambiato quattro chiacchiere con l'autore, per capire meglio la sua visione del futuro della tv su internet.

Punto Informatico: Qual è stato l'evento, il fatto più significativo negli ultimi tre anni per quanto riguarda la Net television?
Tommaso Tessarolo: Sicuramente la nascita di YouTube, perché ha diffuso il concetto di video distribuito in rete anche a livello mainstream. Ha avvertito l'opinione pubblica del fatto che era effettivamente possibile vedere video online.

PI: Tracci un confine molto netto su cosa sia Net Tv e cosa no. Ma l'IPTV in che categoria rientra?
TT: In tutto questo insieme di tecnologie, l'IPTV si configura malissimo per molte ragioni, la prima delle quali è che l'IPTV non è una tv via internet. Viene sempre venduta come tv via internet ma non è vero, è una cable tv, perché devi essere abbonato ad Alice, a Fastweb o a Tiscali per vedere quel tipo di contenuti, sostanzialmente non è aperta, non dà accesso a chiunque, ma sottostà alle regole del palinsesto. L'unica cosa che ha in comune con la Net Tv è che dà accesso alle library di contenuti e ai videoregistratori remoti.

PI: E i videoblog?
TT: I vlog sono assolutamente contenuti di tipo Net Tv perché seriali e in podcasting. E hanno soprattutto un'altra caratteristica tipica della tv in rete: non avendo l'incubo di essere profittevoli si concentrano su nicchie di utenza e lo fanno con apparecchiature proamatoriali, cioè telecamere da 1500 euro e PC con software di montaggio video.

PI: Al momento cosa ti piace seguire di quello che esce in rete?
TT: Seguo poco perché ho poco tempo, però mi guardo volentieri Rocketboom, Newsreel, Wallstrip e PromQueen.

PI: Il futuro è in streaming o on demand? Probabilmente avremo entrambi i modi di trasmettere ma cosa secondo te è destinato a prevalere?
TT: Una caratteristica fondamentale della Net Tv è che il pubblico (anche quello televisivo classico) preferisce sempre di più la fruizione non lineare del contenuto. La televisione classica è quella di flusso (streaming) che prevede che tu sia presente davanti allo schermo ad una certa ora, e questa sta perdendo ascolti (la tv stessa infatti perde ascolti) e là dove sono diffusi i videoregistratori con hard disk il consumo di tv in differita sta crescendo in maniera esponenziale. Credo che lo streaming andando avanti avrà sempre più senso solo per gli eventi che hanno necessità di essere visti in diretta, come lo sport e le news.

PI: Secondo te lo standard tecnologico di trasmissione attuale è adatto a reggere trasmissioni future?
TT: Sì, secondo me è una tecnologia più che matura. Ci sono solo due problemi ancora da risolvere: i DRM, in futuro la maggior parte dei contenuti probabilmente saranno gratuiti e si reggeranno sulla pubblicità ma purtroppo i DRM saranno molto presenti per ancora molti anni almeno finché non troviamo un modo per renderli interoperabili, e questo è un segno di immaturità. E poi i formati video, perché se faccio un podcast in Wmv non lo posso vedere sull'iPod. Non a caso Adobe sta spingendo tantissimo su Flash come codec video universale.

PI: Quanto credi nel crowdsourcing? Davvero le produzioni dal basso saranno quello di cui fruiremo?
TT: Credo ci sarà una mescolanza tra le due cose, anche Chris Anderson sostiene che non può esistere la coda lunga senza le Hit. Le Hit sono il fattore trascinante per qualunque tipo di nicchia, se non ci sono fattori forti è impossibile avere il resto della coda. Le produzioni classiche continueranno ad esistere e saranno fortissime, pur cambiando le modalità produttive e distributive e forse anche i format (più brevi e interattivi), ma la grande fetta della torta sarà comunque costituita dalla coda, la cui grandezza è imprevedibile ma già oggi sappiamo che può essere dal 30 al 60% del totale.

PI: Ci sono possibilità per le idee che si basano sullo standard torrent? Anche per lo streaming intendo...
TT: Non per il momento, il p2p ha una latenza ampia (più di 5 minuti) per cui non può essere usato per trasmettere una partita ma più che altro roba tipo i reality.
A parte questo però credo che il Peer to Peer verrà usato per qualsiasi tipo di contenuto, e secondo me sarà usato sempre di più. Joost o BabelGum (che comunque non trasmettono live) usano infatti i protocolli torrent per distribuire clip video anche in modalità lineare. iTunes presto o tardi monterà il p2p perché è un modo efficiente di distribuire. Per la trasmissione live invece c'è roba come Coolstreaming e Octoshape, ma avranno una portata marginale perché, ripeto, la diretta servirà solo per eventi marginali.

da PUNTO INFORMATICO del 25/05/07

17.5.07

Il primo film hollywoodiano girato senza pellicola

Il cinema è ancora cinema anche senza il ciak e senza il regista che grida "Motore.... Azione!"? Si. Lo dimostra "Zodiac", il film di David Fincher che è stato, non solo realizzato interamente in digitale come già altri film in precedenza, ma anche pensato, strutturato e concepito fin dal sistema di lavorazione in una maniera diversa in grado di sfruttare tutti i possibili vantaggi della mancanza di celluloide.
La presenza di capienti dischi rigidi al posto delle pizze piene di pellicola (sia essa digitale che analogica) sul set di "Zodiac" ha fatto sì che non fosse necessario alcun ciak prima dell'inizio delle scene e che il regista non dovesse gridare "STOP!" per interrompere la macchina da presa, perchè il digitale non è una risorsa da risparmiare. Le memorie sulle quali vengono registrate le immagini riprese dalla cinepresa digitale (in questo caso non la solita Genesis della Panavision ma la Thomson Filmstream Viper già usata da Michael Mann) non sono costose come la (costosissima) pellicola, sono molto più capienti e inoltre (per espressa volontà di David Fincher) integrareno un sistema che consente di cancellare immediatamente il materiale di scarto.
A questo punto non c'è alcun bisogno di interrompere la registrazione ogni volta che una scena deve essere ripetuta, si può continuare a registrare senza sosta. Così si annullano i tempi morti, le pause, i cambi di pizza e i momenti di estraniamento degli attori dalla loro prestazione, al punto che Robert Downey Jr. (uno dei protagonisti del film) a questo proposito ha commentato che non si era mai trovato a dover stare così tanto in piedi.
La scomparsa del ciak invece è tutto frutto di un'idea di Fincher che, avendo già lavorato con il digitale per la regia di molti spot pubblicitari, aveva calcolato quanto l'utilizzo di questo sistema costasse in termini di tempo e risorse. La procedura infatti prende almeno 10 secondi ogni volta, che, moltiplicati per le circa 300 riprese effettuate quotidianamente possono accumularsi fino a costare anche mezz'ora di girato superfluo ogni giorno. A rendere superfluo questo girato è appunto "l'auto-slate", l'idea di Fincher per identificare e marcare le scene senza il ciak: si tratta di un segnale visivo inseribile dalla cinepresa nei primi 5 fotogrammi di ogni scena e che fornisce le medesime informazioni del segnale fisico del suo predecessore fisico, il ciak è già nel girato.
Queste evoluzioni sono parte della rivoluzione del cinema girato in digitale che si sta facendo strada lentamente a Hollywood grazie a pionieri come Fincher, Lucas, Rodriguez e Michael Mann. Si tratta di un modo di girare film tecnicamente diverso che ha ripercussioni forti sul risultato finale, una serie di potenzialità nuove che ogni autore sperimenta a seconda di ciò che più rientra nelle sue corde. Il notturno e malinconico Mann con "Collateral" e "Miami Vice" ha dimostrato che le nuove tecnologie di ripresa, consentendo di girare con pochissima illuminazione, rendono possibile una visione completamente differente della notte, più reale perchè illuminata dai lampioni veri e non dalle luci del set. Mentre il maniaco della recitazione Fincher con le sue idee ha messo a punto un sistema che gli ha consentito di portare alle estreme conseguenze il suo metodo di direzione degli attori.
Raccontano infatti gli stessi protagonisti di "Zodiac" come girare in questo modo fosse molto diverso e come cambi il modo in cui ci si relaziona con il regista e con il set. Fincher spesso entrava in campo durante una scena per dare indicazioni e poi ritornava dietro la cinepresa senza che ci fossero interruzioni, era un flusso continuo di recitazione. Cosa che ben si adatta al metodo del regista di Seven e Fight Club, noto per la sua maniacale attenzione alla recitazione e per la sua esigenza di far provare anche 80 volte una scena prima di considerarla "accettabile". Lui stesso ha avuto modo di spiegare più volte come consideri le prime 20-30 ripetizioni di una scena utili unicamente a liberare gli attori dalla loro impostazione fasulla, e solo quando hanno perso questa prima barriera si può cominciare a provare davvero una scena.

da IL SECOLO XIX del 17/05/07

11.5.07

Le Colline Hanno Gli Occhi 2 recupera le tecniche horror vecchio stile

Il cinema dell'orrore dopo la rivoluzione digitale
L'horror è uno dei generi che per eccellenza non può fare a meno degli effetti speciali. Fin dalle sue origini è stato terreno di sperimentazione per le tecnologie del cinema poichè si nutre dell'esigenza di mettere in scena ciò che nella realtà non esiste e Le colline hanno gli occhi 2 (come già Le colline hanno gli occhi prima di lui) si adopera per rispolverare le tecniche basilari del genere con l'obiettivo di mettere in scena la violenza di un straordinario quotidiano.
Quello che è accaduto con le tecnologie digitali infatti è stato che i film horror hanno fatto un salto in avanti mostruoso nei termini di ciò che potevano mostrare, cosa che tuttavia non è corrisposta ad una necessaria evoluzione delle idee. Spesso la computer grafica è stata usata come una bacchetta magica in grado di risolvere qualsiasi situazione senza che ci fosse però una concreta idea di cinema sotto.

Un horror si nutre di crudezza
In questo caso però trattandosi di un remake di un film del 1977, e ora del suo sequel, molto è stato fatto per ricreare le atmosfere originali di una pellicola concepita per non avere bisogno di effetti digitali, così anche per queste produzioni moderne ci si è appoggiati soprattutto a trucchi, cavi invisibili, effetti sonori, giochi di luce ecc. ecc.
I due registi, Alexandre Aja prima e Martin Weisz dopo, hanno rinunciato a tutte le componenti estetiche della violenza, tutto quello che per esempio ha costituito il cuore di 300. Non è stato infatti neanche in discussione l'utilizzo di tecniche come ad esempio il sangue digitale, poichè ben poco doveva esserci di stilizzato, tutto doveva essere il più concreto possibile. Infatti là dove le tecnologie digitali aiutano a creare una dimensione visiva onirica, l'uso di trucchi dal vivo (come il liquido rosso per simulare il sangue) restituiscono allo spettatore il senso di "orrore" e di brutalità della violenza.
E la scelta corretta che è stata fatta in queste due pellicole è stata appunto di puntare molto sul senso di orrenda brutalità. Se il sangue digitale con le sue esplosioni irreali è una metafora del sangue vero, un suo corrispettivo estetico, il sangue simulato dal vero azzera il simbolismo.

Lo studio delle vite dei mostri
Questo ritorno alle origini però non leva che ormai la tecnologia ha penetrato le fondamenta della struttura produttiva e nulla può essere come prima. Accade quindi che lo zampino del computer ci sia anche per le cose che meno ci si aspetta. Anche in una delle componenti fondamentali per la riuscita del film: il trucco dei "mostri", i deformi che abitano le caverne.
Come è tipico di Hollywood i truccatori hanno lavorato con una metodicità rara, ricostruendo per ognuno dei personaggi deformi la sua storia personale con il solo scopo di crearli con più accuratezza, senza cioè che queste storie vengano poi narrate nel film. Servono solo a capire il personaggio per creare meglio la maschera.
Come sono le parentele nel gruppo di deformi, chi sta in combutta con chi e chi si distacca dal gruppo e per quale motivo. Come mai alcuni hanno deformazioni diverse dagli altri e questo come influisce sul loro carattere e sulle loro azioni ecc. ecc.

Il trucco tra computer grafica e modelli
Quando si passa invece alla vera a propria fase di creazione del trucco tutte le creature vengono innanzitutto modellate e disegnate in 3D al Photoshop, in modo da poter sapere ancora prima di cominciare come sarà il lavoro finito e avere un'anteprima sull'effetto che potrà dare l'attore una volta truccato. Poi dai modelli tridimensionali vengono fatte delle stampe dei volti ottenuti e alla fine queste stampe sono unite ai calchi delle teste degli attori. In questo modo è possibile capire come far combaciare al meglio trucco e volto prima ancora di cominciare a sperimentare sugli attori, aumentando la qualità del risultato e risparmiando tempo.

da MYMOVIES.IT del 10/05/07

Spiderman 3: emozionare con gli effetti speciali

Innovare per non annoiare
"Che cos'è che non ho ancora mai visto?" è quello che, per sua stessa ammissione, si chiede ogni volta Sam Raimi quando si tratta di sviluppare qualcosa di totalmente originale, ma il punto è che spesso se qualcosa ancora non si è vista è perchè non esiste la tecnologia per realizzarla, "ecco perchè in quasi tutti i casi gli effetti di Spiderman 3 sono frutto di tecniche assolutamente nuove". Tecniche e non tecnologie, dosa bene le parole il regista della saga dell'Uomo Ragno, infatti uno dei diktat di ogni film di Raimi è che agli effetti computerizzati siano sempre affiancati effetti "reali", prestazioni da parte degli attori o di stuntmen aiutate dalla tecnologia.

L'Uomo Sabbia, miliardi di granelli per un attore solo
Esemplare da questo punto di vista è stata la realizzazione e l'animazione dell'Uomo Sabbia (di gran lunga lo sforzo più imponente da parte della produzione) che ha richiesto per prima cosa la creazione di nuove tecnologie apposite. Di software in grado di gestire l'animazione di migliaia di particelle contemporaneamente infatti già ne esistevano, ma quello che era necessario in questo caso era un software in grado di gestire miliardi di particelle, per poter animare nel modo più realistico possibile i granelli di sabbia di cui è composto il personaggio. E' stato necessario dunque creare dal nuovo tutta una serie di programmi che potessero gestire una simile mole e tipologia di dati diversi. E quella è stata solo la base! Il duro è venuto dopo.
Infatti la sabbia è un materiale molto particolare, i singoli granelli si comportano a tutti gli effetti come dei solidi mentre quando sono insieme il loro movimento e le loro reazioni ricordano più quelle dei liquidi. Per poter quindi far muovere l'Uomo Sabbia in maniera realistica, calcolando le diverse forme e solidità che il suo corpo può assumere, sono stati necessari diversi mesi di studio preliminare della sabbia: "Dovevamo comprendere innanzitutto come si muove la sabbia e solo successivamente elaborare le equazioni matematiche che ci avrebbero consentito di sapere come manipolarla" sono state le parole con cui il produttore Avi Arad ha raccontato questa fase della lavorazione.
Studiare la sabbia ha voluto dire realizzare una lunga serie di riprese con la sabbia come protagonista: sabbia lanciata in aria, lanciata contro il bluescreen, o sullo sfondo di uno schermo nero, sabbia spruzzata addosso ad uno stuntman e via dicendo per elaborare tutte le possibili azioni che la sabbia avrebbe compiuto nel film e capirne le reazioni.
E mentre un team di animatori studiava accuratamente il comportamento dei granelli un altro si occupava di animare il personaggio, tenendo sempre presente che questa animazione avrebbe poi dovuto fare i conti non solo con l'altra (quella dei granelli di sabbia) ma soprattutto con Thomas Haden Church, l'attore che avrebbe vestito i panni dell'Uomo Sabbia. L'animazione del personaggio e quella della sabbia infatti sono solo il contorno necessario a mostrare il dramma umano del personaggio, dramma che parte e finisce tutto nella prestazione dell'attore: "Anche se è soltanto un mucchio di sabbia, l'Uomo Sabbia è un personaggio con delle emozioni" osserva Scott Stokdick, il supervisore agli effetti speciali "se questi granelli messi assieme comunicheranno qualcosa al pubblico, allora vorrà dire che siamo riusciti nel nostro intento".

L'Uomo Ragno nero, dark anche nei movimenti
Mentre le evoluzioni dell'Uomo Sabbia acquistano di elaboratezza lungo tutto l'arco del film, raggiungendo punte stupefacenti di evidente complessità, in pochi invece noteranno come l'animazione dell'Uomo Ragno non sia la medesima per tutto il film. Uno dei punti di forza fin dal primo episodio della serie è infatti l'accurata animazione delle evoluzioni ragnesche, sia nel volo tra i grattacieli che durante i combattimenti, in questo terzo episodio però è stato aggiunto un elemento in più di raffinatezza.
Per una certa parte del film Peter Parker è posseduto da un simbiota alieno nero che ne amplifica i poteri ma lo rende anche più aggressivo e cinico. Questo cambio di umore e atteggiamento non si riflette solo nelle decisioni e nelle interazioni con gli altri personaggi ma anche nell'animazione. Spencer Cook, responsabile dell'animazione che è stato personalmente incaricato di operare le piccole modifiche nei movimenti ragneschi che riflettessero la maggiore aggressività, spiega come "Spiderman [nero] si muove con maggiore rapidità, inarca le spalle un po' di più e quando è appeso ad un muro solleva i gomiti un po' più in alto. Abbiamo cercato di immaginare movimenti che il solito Spiderman non farebbe: lì dove il supereroe con il costume rosso è elegante e aggraziato, l'Uomo Ragno tutto in nero è brusco, violento e avventato".

Venom, parte umano e finisce interamente digitale
Una volta lasciato l'Uomo Ragno il simbiota alieno prende possesso di Eddie Brock dando vita a Venom, un personaggio nuovo che solo inizialmente somiglia al protagonista del film ma che con il lento prendere il sopravvento della personalità senza scrupoli dell'organismo ospite diventa un'entità autonoma. Venom è uno dei personaggi più attesi dai fan del fumetto, un cattivo diventato subito un cult tra gli appassionati, portarlo sullo schermo voleva dire confrontarsi con aspettative molto alte. Per questo il personaggio è stato curato seguendo due linee di realizzazione corrispondenti alle due anime del personaggio. Inizialmente infatti Venom è una sorta di sosia di Spiderman, ma con il procedere della trama gli interventi digitali si fanno sempre più insistenti fino a che alla fine Venom non ha più nulla di umano ed è un personaggio animato interamente in computer grafica.

da MYMOVIES.IT del 03/05/07

iTunes? Un sistema obsoleto

Roma - Il mondo della distribuzione musicale in rete non è un'esclusiva di Apple e del suo iTunes e nemmeno delle molte altre società che tentano di rosicchiare fette di mercato (da Microsoft a Napster, da eMusic a RealNetworks). C'è tutta un'altra dimensione della musica scaricata legalmente che è quella della musica rilasciata sotto licenza Creative Commons, una tendenza che fu inaugurata ufficialmente qualche anno fa da Wired quando fece un party per pubblicizzare l'iniziativa di un CD di musica in CC (con pezzi di artisti del calibro di David Byrne e Gilberto Gil) dato in regalo con la rivista.
Si tratta di un sottobosco sempre più ricco, fondato sulla libertà di riutilizzo e su "some rights reserved", per costruire un business diverso, più libero, equo e in linea con le tecnologie (il digitale e la rete) cui si appoggia. Musica distribuita senza DRM e senza vincoli tecnici di alcun tipo, venduta a prezzi variabili e liberamente scambiabile, in virtù di un modello di business che si fonda sullo svincolo da ogni tipo di intermediazione tra chi distribuisce e l'artista. Le due entità (a seconda dei contratti e dei siti in questione) dividono le entrate provenienti da passaggi in radio o acquisti in rete e l'utente ci guadagna in musica totalmente libera.

Sui limiti e i pregi di un tale approccio abbiamo sentito Juan Carlos De Martin, professore associato presso la Facoltà di Ingegneria dell'Informazione del Politecnico di Torino e responsabile italiano del progetto Creative Commons.

Punto Informatico: Il modello di distribuzione musicale in CC è un business appetibile? Intendo anche per le grandi etichette
Juan Carlos De Martin: Le possibilità sono due: mettere la musica online, cosa che favorisce la vendita di CD (come mettere un libro online può favorire la vendita del libro cartaceo) oppure (come diceva David Byrne un paio di mesi fa) capire che la musica è di per sé gratuita e dovrebbe servire a reggere tutta una serie di business collaterali da cui viene il guadagno per gli artisti.

PI: Cioè il disco come veicolo promozionale?
JCDM: Sì. Il disco deve essere propedeutico all'acquisto del biglietto del concerto o del merchandising, del contatto con l'artista tramite fan club a pagamento e cose del genere. Modelli che qualcuno sta cominciando a provare ma che chiaramente ci vorrà del tempo prima che si stabilizzino. Bisognerebbe rigettare la vecchia idea per la quale è necessario spingere le vendite di CD per abbracciarne una dove la musica è solo un modo per stimolare gli appassionati a spendere i loro soldi in attività collaterali.

PI: Ma un simile modello non dovrebbe essere la soluzione più conveniente per musicisti che fanno generi di nicchia e già guadagnano principalmente dai concerti?
JCDM: Sì, è quello che pensano molti. È la stessa cosa per i libri, un libro accademico che diciamo vende 200 copie in tutto il mondo che senso ha che sia a pagamento? Ci guadagna solo l'editore. Perché invece non metterlo a disposizione di tutti in Creative Commons in modo che la diffusione sia massima? Questo si può declinare in tutte le dimensioni dell'industria culturale e quindi anche alla musica popolare, perché un compositore di classica non può certo vivere facendo concerti...

PI: In Italia ci sono esempi validi?
JCDM: Beh, music store internazionali come Jamendo hanno anche una sezione in Italia, ma di altre attività di ordine commerciale non ho notizia. Ci sono però molte etichette indipendenti e quindi molti artisti che hanno rilasciato la loro musica in Creative Commons.

PI: Eppure ancora non si sente di nessun musicista noto (anche di un ambito di nicchia) che abbia intrapreso questa strada....
JCDM: I grandi nomi ci stanno ancora pensando ma per il momento non si sono ancora mossi. Del resto sono anche passati solo quattro anni dalla creazione dei Creative Commons, siamo all'inizio. A tutt'ora esistono degli ambiti in cui tutti sanno di che si tratta e come funzionano e ambiti in cui nessuno ne ha sentito parlare. Passare da un modello all'altro è una cosa che richiede solitamente almeno una generazione.


Jamendo e Magnatune sono due dei più grossi music store mondiali dove acquistare e distribuire musica con licenza Creative Commons, vendono musica senza DRM scaricabile liberamente e retribuiscono gli artisti senza l'intermediazione di etichette o distributori.
Hanno un rapporto diretto sia con i clienti che con i musicisti e danno vita (per chi vuole aderire a questo tipo di distribuzione) ad un commercio il cui primo obiettivo è far girare e ascoltare la musica mantenendo alcuni diritti fondamentali: attribuzione (l'utente deve sempre nominare l'autore originale), non commerciabilità (l'utente non è autorizzato ad usare il lavoro dell'artista a scopi commerciali, senza prima chiedere il permesso), nessun lavoro derivato (l'utente non può alterare, trasformare o prendere il lavoro dell'artista come spunto per il proprio, senza prima chiedere il permesso), condivisione allo stesso modo (se un utente altera, trasforma o prende il lavoro dell'artista come spunto per il proprio, deve distribuire quest'ultimo sotto la stessa licenza).
Jamendo ha diverse sezioni sparse in vari paesi (Italia compresa) e da quando è in piedi (2005) ha distribuito legalmente almeno un milione di album attraverso la tecnologia di BitTorrent e quella di eDonkey (anche se per quest'ultima è più difficile il tracciamento e quindi non è chiaro quanto materiale sia stato scaricato). L'ascolto e il download degli oltre 2.800 album in archivio è gratuito ed è possibile fare una donazione agli artisti a discrezione dell'utente.
Magnatune invece nasce nel 2003 e propone l'acquisto a prezzi che variano a discrezione del compratore dai 5 ai 18 dollari per album. Applica un modello di business per il quale ognuno dei 175 artisti che hanno scelto di appoggiarsi al servizio ha diritto al 50% di tutti i proventi che vengono dalla loro musica, sia che si tratti di acquisto, sia che si tratti di darla in licenza per scopi commerciali ad altre realtà.
Abbiamo sentito Laurent Katz, CEO di Jamendo e John Buckman, CEO di Magnatune, sui medesimi argomenti per capire dove stia andando il mercato della musica in CC.

PI: È possibile immaginare un business musicale che preveda la distribuzione in CC come standard?
John Buckman: È sbagliato pensare ad un solo scenario possibile per il business musicale. Per il futuro vedo molti differenti tipi di modelli, dai più antiquati come iTunes (dove compri un album dalle etichette musicali) fino alla musica comprata direttamente dai musicisti e ai servizi che ti offrono musica gratis. All'interno di questa moltitudine di alternative la musica in CC troverà sicuramente il suo modo di vivere.
Laurent Katz: La musica gratuita è già uno standard per la generazione tra i 15 e i 25 anni, ma raggiungerà quote sostanziali di mercato nei prossimi anni, come ha fatto il free software nel suo settore negli ultimi 20 anni (ma speriamo che la musica ci metta meno). Questo poi non vuol dire che un artista non trovi altre fonti di guadagno oltre alla musica in sé.

PI: Cosa offrono di vantaggioso ad un musicista i Creative Commons? Intendo ai grossi artisti
JB: Artisti come Madonna vendono la loro musica in molti modi di cui il CD è solo un esempio. Condividere la tua musica amplia la platea di ascoltatori, cosa che ti dà la possibilità di fare più soldi.
LK: Musicisti come Gilberto Gil, Pearl Jam, Beasty Boys già usano i Creative Commons per una certa parte del loro catalogo perché gli conviene.

PI: Come vanno gli affari? Ci sono musicisti da voi distribuiti che guadagnano abbastanza da viverci?
JB: Magnatune è solo una parte della carriera di un artista, noi contribuiamo alla loro sopravvivenza ma non li manteniamo in vita.
LK: No. Ricevono soldi ma non intendono vivere con questi introiti.

PI: Ci sono grossi player del mercato che si sono interessati a quello che state facendo?
JB: Ricevo con cadenza regolare chiamate dalle principali etichette e dai loro musicisti più importanti che sempre di più vedono calare le loro vendite e sono stufi di venire pagati poco per quanto vendono. Nel mondo delle grosse etichette sanno bene che il loro business sta morendo e stanno cercando delle alternative.
LK: Sì. anche se non posso rivelare altro.

da PUNTO INFORMATICO del 11/05/07