27.3.07

L'Europa vissuta grazie alla tecnologia

Roma - L'Europa ha 50 anni, almeno come comunità di stati. Risale infatti al 1957 la firma dei trattati di Roma e l'applicazione del sistema comunitario come lo conosciamo ora. Così quest'anno il CIDE (Centro Nazionale di Informazione e Documentazione Europea) ha deciso di celebrare l'evento rispondendo alla grande domanda di informazione da parte del pubblico riguardo alle istituzioni, alle politiche e ai programmi dell'Unione Europea. Europèdia è una di queste risposte.

Il progetto si basa su una realizzazione di MAP Cross Communication, una società romana che si occupa di nuovi format di comunicazione per l'impresa pubblica e privata, e di 7th Floor, magazine free press dedicato alla comunità business e distribuito nelle grandi aziende italiane, ideato da Carlo Infante, Andrea Genovese e Stefano Diana. Europèdia è un'installazione itinerante che tocca le grandi piazze al chiuso italiane (come la Galleria Alberto Sordi a Roma) con un ambiente interattivo in grado di stimolare i sensi e le apparecchiature tecnologiche.

All'installazione è associato quello che viene definito un geoblog, una grande mappa d'Europa in stile Google Maps, marchiata con le tag degli utenti che indicano tutti i luoghi dell'Europa, da quelli istituzionali a quelli privati ed "emozionali", come li definisce Carlo Infante che (non nuovo a questo tipo di iniziative) si è occupato proprio del geoblog in particolare.

In più, l'area dell'installazione è coperta dal WiFi, invia messaggi Bluetooth ai telefoni abilitati ed è disseminata di "matrix code", codici a barre digitali che, letti dalle fotocamere dei cellulari che hanno installato il software appropriato, restituiscono stringhe di testo e URL a cui connettersi.

Dal punto di vista fisico l'installazione è formata da alcune postazioni "audio-interattive" che, quando qualcuno si siede, attivano e trasmettono alcune riflessioni di grandi pensatori sull'Europa. C'è anche un grosso monolite nero dotato di sensori di prossimità e di movimento che è formato da quattro pareti di monitor che mandano immagini e schermate con le quali è possibile interagire senza dover toccare nulla.

L'installazione sarà alla Galleria Alberto Sordi di Roma ancora per oggi, poi dal 30 marzo al 3 aprile sarà a Torino (Galleria San Federico) e dal 9 al 13 maggio a Lecce (Il Sedile). Proprio all'inaugurazione dell'esperienza Europèdia, Punto Informatico ha incontrato Carlo Infante e Andrea Genovese.

Punto Informatico: Europèdia è un progetto di conoscenza interattiva a quanto mi sembra di capire
Carlo Infante: Sì, Europèdia è un ambiente interattivo. Un progetto di comunicazione pubblica che fa dell'interattività la sua peculiarità. Bisogna fare attenzione però perchè l'interattività viene intesa in diversi modi e ormai è quasi diventata una parola svuotata di significati. Interazione non è solo cliccare sui pulsanti, ma va intesa come partecipazione, non sei solo consumatore di informazione.

PI: Fruitore di informazione ma anche produttore
CI: Sì, non sei solo consumatore di informazione ma produttore, coniugando l'informazione con la tua emozione, secondo il principio del prosumer, produci consumando contenuti. Con i blog abbiamo capito che gli utenti rilasciano informazioni, la soggettività è stata portata nella rete delle reti dai blog e ora Europèdia esporta questo modello comunicativo e lo allarga tramite il geoblog.

PI: In che modo?
CI: L'utente può leggere e informarsi sui luoghi istituzionali di dove è nata l'Europa: Ventotene, Taromina... E poi può postare i luoghi che hanno a che vedere con la sua Europa, intesa chiaramente come sentimenti. Perché l'Europa non è solo istituzioni ed uffici a Bruxelles! È nata nei luoghi dell'esilio o nei circoli dell'empatia e anche nei luoghi di villeggiatura dove la gente si è incontrata, i luoghi privati che si proiettano nella cosa pubblica. Ecco, questi sono quelli che chiamiamo i "Percorsi Emozionali".

PI: Ma qual è l'obiettivo di Europèdia?
Andrea Genovese: È un progetto di comunicazione pubblica interattiva, un nuovo format di design urbano e come tale si propone di veicolare e diffondere la cultura dell'unione in Europa. La cosa interessante è che quest'ambiente va a sollecitare i tuoi dispositivi sensoriali e tecnologici: quando entri nella galleria il tuo telefonino riceve messaggi bluetooth, il palmare sente la connessione WiFi (che copre un raggio di 100 metri) e poi c'è il grande monolite kubrickiano che sollecita i passanti con immagini e suoni.

PI: Il monolite di Kubrick ci interroga, quello di Europèdia che risposte dà?
AG: Il monolite è equipaggiato con un sensore di prossimità che fa partire la schermata all'avvicinarsi del soggetto mentre le webcam evitano l'interazione tramite touchscreen, che ormai ce l'hanno anche i bancomat. In questo modo c'è la magia dello specchio e dello sfioramento.
CI: Sì, il monolite è un nuovo modo di concepire un monumento. È l'iMirror, l'interactive mirror che ti rispecchia e ti consente di giocare con la visual poetry, una poesia interattiva che mette in relazione una lettura sia poetica sia politica dell'Europa.

da PUNTO INFORMATICO del 27/03/07

22.3.07

Come ho cambiato pelle per girare la morte di Bush

Solitamente è il lavoro dell'attore mettersi nei panni di qualcun'altro, chiedersi come agirebbe, cosa farebbe e quali reazioni avrebbe il suo personaggio di fronte agli eventi che un film mette in scena, ma per Death Of A President è andata diversamente. Questa volta è stato il regista, Gabriel Range, che, per girare quello che deve apparire come un possibile documentario del 2008 incentrato sull'assassinio del presidente George Bush avvenuto a fine 2007, si è dovuto mettere nei panni di volta in volta di un reporter televisivo, di un manifestante che riprende con il cellulare, di una telecamera di sicurezza e via dicendo: "Ad ogni singola scena pensavo 'Chi sono io che tengo la cinepresa?" spiega il regista "Sono un manifestante? Sono un giornalista? Sono un membro della polizia di Chicago?', dovevamo sempre pensare a come questa persona avrebbe usato la telecamera", sta tutto qua il segreto per la riuscita della perfetta illusione di Death Of A President.
In questo modo è stato possibile integrare le reali immagini di repertorio del presidente Bush, accuratamente selezionate per essere coerenti tra loro (immagini in cui il presidente è vestito nella stessa maniera ed alla stessa ora del giorno se è in esterno), con quelle fittizie girate per il film. Il risultato è la ricostruzione in stile giornalistico di un evento che non è mai accaduto, una visita del presidente degli Stati Uniti a Chicago corredata di forti proteste e tumulti che sfociano nell'omicidio.
Il regista si è preparato un anno visionando immagini di notizie televisive per selezionare quelle che potevano essere messe insieme per raccontare la sua storia. Scelte le immagini è stato poi necessario girare tutto ciò che non era riuscito a trovare (le manifestazioni, gli scontri, le azioni della folla e le riprese delle telecamere a circuito chiuso), più alcune interviste ad attori che impersonano uomini e donne vicini al presidente, capi di polizia, manifestanti, agenti dell'FBI, uomini della scorta, nonchè i parenti dell'omicida.
E' stata necessaria una perizia tecnica non comune per invecchiare e rovinare ad arte certe immagini in modo da farle sembrare frutto di riprese scadenti o di registrazioni su VHS di immagini satellitari. Sempre il regista spiega come secondo la sua lunga esperienza nel giornalismo televisivo "nelle conferenze stampa le cineprese sono posizionate così tanto una vicino all'altra che inevitabilmente qualcuno ti dà una gomitata o sbatte sul treppiedi. Così ho scelto deliberatamente di dare qualche scossone alla cinepresa quando ricostruivo in studio le conferenze stampa".
Ma la parte del film (o del reportage che dir si voglia) più politicamente interessante è la seconda, quella che segue il funerale del presidente (inscenato selezionando e tagliuzzando immagini e discorsi dal funerale di Reagan) e che spiega cosa è successo dopo. Il giuramento del vicepresidente Dick Cheney, l'inasprirsi delle misure di sicurezza con l'approvazione del Patriot Act III e le relative maggiori libertà concesse agli organi di controllo e soprattutto la caccia spietata al possibile assassino. Manifestanti ribelli, cittadini di provenienza araba con passati militari e semplici passanti sono sequestrati incarcerati, interrogati, processati e sommariamente imputati dell'omicidio fino a che non si trova il vero colpevole.
Ed è proprio questa parte quella che più ha incuriosito il regista e che lo ha spinto a fare questo film in questo modo: "I documentari retrospettivi seguono uno stile molto particolare, possiedono un genere di gravità tutto loro" in più "siamo una generazione televisiva. Se avviene un incidente catastrofico ne facciamo esperienza per mezzo dei media. E fino a quando non vediamo qualcosa sulla CNN per noi non è del tutto reale".

da IL SECOLO XIX dell'11/03/07

20.3.07

Gli artigiani del fuoco digitale

Spesso le più grandi qualità di un film stanno nella sua fattura, negli espedienti tecnici e manufatturieri patoriti dagli artigiani che ci lavorano piuttosto che nel racconto o nella visione del regista. Con tutta probabilità, guardando Ghost Rider, ci troviamo proprio di fronte a uno di questi casi. Casi in cui per l'appunto sono le soluzioni tecniche l'unica cosa interessante di una pellicola che. Altrimenti. meriterebbe il dimenticatoio.
Per portare sullo schermo il film sul supereroe della Marvel, Mark Steven Johnson si è appoggiato a Kevin Mack e alla Sony Pictures Imageworks, società di effetti speciali e visivi interna al gruppo Sony. Il lavoro più grosso, com'è facile immaginare, è stato creare il personaggio principale, il motociclista scheletrico dalle ossa infuocate. Un personaggio che, contrariamente a molti altri supereroi, non poteva essere reso da un attore mascherato. Ghost Rider doveva necessariamente essere totalmente creato al computer e doveva anche muoversi in maniera simile al suo omologo reale, Nicholas Cage.

Un compito molto complesso, come spiega proprio Kevin Mack: "Abbiamo dovuto delegare ad altri studi gli effetti più tradizionali come la rimozione di elementi indesiderati o la modifica di sfondi e cieli. Ci dovevamo dedicare interamente e unicamente alla creazione del personaggio". Così delle 600 scene con effetti visivi la Sony Imageworks ne ha create 342, tutte quelle di Ghost Rider. E la priorità era il fuoco. Necessariamente non poteva essere reale, solo un fuoco totalmente creato in computer grafica poteva rispondere alle caratteristiche "demoniache" richieste dal regista (e dal personaggio).
Si sa che il fuoco, come del resto l'acqua, sono tra le cose più difficili da simulare e ricreare al computer. Hanno un movimento, una forma, una consistenza e dei colori imprevedibili e con i quali tuttavia tutti quanti hanno molta dimestichezza. Chiunque è quindi in grado di riconoscere al volo quando un'animazione del fuoco o dell'acqua lascia a desiderare. In più quello di Ghost Rider doveva essere un fuoco forte, potente e che reagisse agli elementi con cui entrava in contatto come il vento e l'acqua.

"La prima cosa è stata girare delle immagini di prova con dei manichini a cui davamo fuoco. Era fondamentale per capire l'esposizione per le scene. Perché quando il fuoco brucia va facilmente in sovraesposizione (cioè risulta molto più luminoso del resto dell'immagine, ndr). Ma del resto se regoli l'esposizione per illuminare bene il fuoco, ottieni ottimi colori e un bel dettaglio ma il resto della scena è sottoesposto (cioè troppo scuro, ndr)". Il problema non era da poco ma è stato risolto con la sbrigativa quanto risoluta idea che il fuoco era demoniaco e così doveva sembrare, dunque non sarebbe stato un problema se a vista fosse risultato più illuminato, o illuminato diversamente dal resto dell'immagine. Anzi sarebbe stato forse anche meglio. Più soprannaturale.
Ma i problemi non erano finiti. Infatti, sempre dai test con i manichini, era risultato che il vero fuoco non viene ripreso bene dalle macchine da presa. Queste infatti solitamente lavorano a 24 fotogrammi al secondo, cioè scattano 24 foto ogni secondo che, mostrate in sequenza, danno l'illusione del movimento. Il punto è che il fuoco si muove velocemente e 24 foto al secondo non sono sufficienti a cogliere bene i suoi movimenti. Quindi se si prova a filmarlo il risultato è un effetto simile a quello stroboscopico. Anche qui lo studio si è appoggiato al deus ex machina dell'origine diabolica del fuoco di Ghost Rider, ne ha così rallentato i movimenti donandogli una fluidità e un movimento quasi seducenti.

Nonostante possa sembrare una soluzione scontata e sbrigativa, quella di un fuoco non esattamente verosimile perché sovrannaturale è in realtà una conquista non da poco. Infatti l'origine infernale non giustifica ogni innaturalezza ma costituisce un elemento in più di complessità. Il fuoco deve essere reale e allo stesso tempo sovrannaturale.
Infine un ultimo elemento molto importante era la trasformazione. Nel film il personaggio interpretato da Nicholas Cage in più occasioni si trasforma e la transizione da essere umano in carne ossa a essere umano in ossa e fuoco doveva essere il più credibile possibile. Così è stato applicato un vecchissimo trucco del cinema, quello della sottrazione.
L'immagine del viso di Nicholas Cage al momento della trasformazione era continuamente proiettato sopra il modello 3D, di modo che lo coprisse. Poi, lentamente, alcune parti ne venivano sottratte scoprendo il teschio animato. L'effetto in questo modo è di un viso sul quale le bruciature erodono lentamente la pelle, scoprendo il teschio.
"Abbiamo davvero creato una serie di strumenti che ci hanno permesso di agire al meglio sul fuoco in termini di movimenti rapidi e reazioni realistiche a forze differenti" commenta un soddisfatto Kevin Mack "Alla fine avevamo il controllo completo sui suoi movimenti e sui colori. E questo lo considero il trionfo maggiore".

da MYMOVIES.IT del 15/03/07

Innovare la fantascienza moderna pensando a Kubrick

La storia della genesi de L'albero della vita è fortemente intrecciata con la storia della genesi dei suoi effetti speciali. Perché quello che Aronofsky voleva fin dal primo momento era qualcosa che fosse definitivo ed eterno, qualcosa che offrisse una visione del futuro e dello spazio destinata a non invecchiare mai. È stato lui a tirare in ballo 2001: Odissea nello spazio con i suoi effetti speciali ancora oggi attuali e credibili, molto più di tanti film più moderni. E questo, secondo Aronofsky, perché non veniva usata la computer grafica.
L'idea per L'albero della vita viene al regista all'uscita dal film Matrix. L'opera dei fratelli Wachowski lo aveva colpito per come erano riusciti a riassumere 30 anni di evoluzione del pensiero fantascientifico e contemporaneamente a spingere in avanti il genere: "Che tipo di film di fantascienza si possono fare adesso?" era la domanda che lo tormentava. E così decise che sarebbe stato lui a dirigere il prossimo passo in avanti del genere.

Purtroppo non c'è riuscito e nonostante un massiccio investimento della produzione nemmeno il pubblico è stato dalla sua. Questo perché la fantascienza non è negli effetti speciali, questi sono una componente utile a ricostruire ciò che non c'è ancora ma che si immagina. E il loro compito non è quello di essere realistici ma, come tutti gli elementi di un film, di essere evocativi. Questo è poi valido in modo particolare per la fantascienza che più che un genere è un modo di vedere le cose, come insegna bene Lucas con il suo primo lungometraggio: L'uomo che fuggì dal futuro, nel quale il regista costruisce un ambiente perfettamente futuribile a budget praticamente zero, solamente con un accorto uso della recitazione, delle luci, del bianco (che con una geniale intuizione si rivela perfetto per descrivere gli ambienti futuri) e dei costumi.
Il film non ha avuto comunque una genesi facile e la sua fattura merita di essere ricordata per alcuni spunti interessanti.

All'inizio Aronofsky aveva la totale fiducia degli studios e di star come Brad Pitt e Cate Blanchett, il progetto infatti si è arenato solo in un secondo tempo per una difformità di vedute tra Aronofsky e Pitt, che in seguito ha lasciato il progetto assieme anche a una buona parte del budget. Ci sono voluti allora molti anni e cambi di troupe perché le riprese cominciassero, ma alla fine Aronofsky ce l'ha fatta a finire il suo progetto più ambizioso anche se con metà del budget iniziale (da 70 a 35 milioni di dollari).
Chiaramente la prima cosa da fare era trovare un modo per rendere sullo schermo la visione del regista senza usare la computer grafica, perché per l'appunto quello doveva essere lo specifico dell'opera. Per questo sono stati assunti pittori che dipingessero le nebulose e soprattutto è stato raggiunto Peter Parks, un biologo marino e microfotografo, capace di fotografare una microlitro d'acqua e magnificare l'immagine fino a 500,000 volte la sua grandezza originaria grazie a giochi di lenti e prismi.
Parks lavora a Londra in uno studio di effetti speciali a conduzione familiare (sono lui e il figlio), con il quale fornisce sfondi e fotografie impossibili da immaginare solo giocando con i fluidi. È lui stesso a spiegare come guardando le sue foto sembri di guardare l'infinito poiché "le forze che lavorano nell'acqua sono le medesime che agiscono nello spazio".

La visione che il microfotografo ha degli effetti speciali è molto semplice: "La gente che lavora alla computer grafica ha il pieno controllo su tutto quello che fa [per questo] quello che cercano continuamente è la casualità, in modo da non essere limitati dalla propria immaginazione. Io non ho la possibilità di fare due volte la medesima cosa". Per la precisione gli elementi utilizzati da Parks per le fotografie che sono servite da fondale spaziale erano reazioni chimiche, liquidi e polvere di curry. Ogni foto un diverso universo e questo era proprio quello che Aronofsky cercava e ora poteva disporre di incredibili effetti che sarebbero costati milioni di dollari all'Industrial Light And Magic per soli 140,000$.
Queste immagini sono effettivamente impressionanti e più "organiche" di qualsiasi immagine in computer grafica mai vista eppure sarebbe sbagliato considerare pari a zero l'intervento del digitale. Un certo uso di effetti computerizzati è stato indispensabile per fondere al meglio le immagini e per scene come quelle della stella che esplode o lo sbocciare dell'albero della vita dall'interno del corpo di Hugh Jackman. Ma non solo, benché la gran parte degli effetti fosse di natura organica la mentalità che ha guidato la loro creazione, per stessa ammissione degli autori, era computer-centrica, pensata cioè per una postproduzione o per un'elaborazione successiva. Ecco quindi che la parabola "artigianale" di Aronofsky crolla sempre di più sia dal punto di vista della coerenza intellettuale che poi (e decisamente) da quello del risultato finale, bello ma freddo.

da MYMOVIES.IT del 19/03/07

13.3.07

Open Source a scuola grazie a pc Ri-utilizzati

Bari - L'Istituto Tecnico Commerciale Giulio Cesare di Bari è tra i primi primi licei italiani a mettere in atto una sperimentazione che coniuga filosofia ed etica del software libero ed open source con il riciclo di computer ormai obsoleti.
TechnoSec, società di sviluppo di software libero, ha infatti dato vita a partire dal 2004 a Progetto TRIciclo, applicabile a qualsiasi organizzazione o ente, che si propone di rendere di nuovo operativi, grazie ai software basati su Linux, quei computer che ormai non possono più reggere i programmi Microsoft. Il progetto ha trovato molti riscontri presso le scuole superiori: solo nel liceo Giulio Cesare sono stati recuperati circa 30 pc che giacevano accatastati come rottami in uno stanzino rendendoli di nuovo operativi in forma di terminali grafici collegati ad un server centrale che ne gestisce il sistema operativo. Punto Informatico ne ha parlato con Marco Pennelli di TechnoSec.

Punto Informatico: Come si ri-utilizzano computer considerati obsoleti?
Marco Pennelli: Principalmente grazie al Linux Terminal Server Project che permette di collegare insieme una serie di computer che fanno anche il boot direttamente via rete, caricando così il sistema operativo dal server. E poi, dato che tutto quello che viene fatto dai client viene seguito dal server, questi PC possono anche non avere un disco fisso.

PI: Ma quanto sono "obsoleti" questi PC di cui parliamo?
MP: Diciamo che un client che viene recuperato può anche essere un pentium 100 con 32 MB di RAM e il server (che non può essere un PC riutilizzato ma necessariamente una macchina acquistata) di media potenza (dotato di almeno 2Gb di Ram) può elaborare i calcoli per 30 di queste macchine.

PI: C'è di mezzo anche il calcolo distribuito?
MP: In questo momento no. Inizialmente si pensava anche ad un discorso di clustering per fare calcolo distribuito sulle macchine, ma siccome non ci sono software liberi adeguatamente sviluppati abbiamo accantonato l'idea. Nel futuro sarà sicuramente possibile avere piccoli cluster nei supercomputer che con l'aggiunta di piccole macchine aumentino la potenza del cluster stesso.

PI: Perché spingere il software libero nelle scuole?
MP: Alle scuole questa cosa conviene perché risparmiano il 75% rispetto a modernizzare il proprio laboratorio e poi hanno qualcosa in più da offrire a docenti e studenti in termini di formazione.

PI: Già, perché non tutti sanno usare le piattaforme alternative
MP: Al momento stiamo facendo unicamente la formazione per i professori e sempre con loro stiamo valutando la possibilità di fare un percorso formativo per gli studenti. Anche perché quando i professori imparano a conoscere il software libero sono più sicuri e propensi a formare i ragazzi.

PI: Quali sono i software che insegnate ad usare?
MP: Innanzitutto utilizziamo EdUbuntu (una distribuzione educational, configurato proprio per il boot via rete) e diamo le basi per insegnarlo e poi ci occupiamo anche dei linguaggi di programmazione, insegnando magari Python al posto di Visual Basic e chiaramente OpenOffice da usare al posto di Office.

PI: Insegnate solo l'utilizzo tecnico o anche l'etica del free software?
MP: La prima cosa che facciamo è proprio spiegare l'ideologia del software libero e dell'open source, le differenze tra i due movimenti e le loro caratteristiche, perché sono nati e come si stanno evolvendo, perché non sono nati ieri ma molti anni fa.
Si fa quindi tutto un discorso di storia, dall'avvio di Unix fino a Linux parlando anche dei vari personaggi del panorama open source. Facendo così abbiamo ottenuto che i docenti si sentano parte di una comunità e trasmettano poi più facilmente quest'ideologia ai ragazzi. In più, stiamo anche discutendo sulla possibilità di far sì che studenti e docenti contribuiscano allo sviluppo di software liberi.

PI: Ma una cosa del genere non richiede molto più tempo di quello che possono offrire degli studenti di liceo?
MP: In un istituto tecnico c'è un'area di progetto che gli studenti devono fare ogni anno e consiste in qualcosa che loro realizzano e che accomuna varie materie e discipline. E solitamente quando c'è l'informatica di mezzo viene realizzato un software che accomuni più materie. Adesso quindi il progetto potrebbe essere di realizzare un software libero, utilizzabile anche da altre scuole (che magari possono anche contribuire). Ogni classe ne realizza un modulo.

PI: Ma per la sua specificità questa non è un'iniziativa più adatta alle università?
MP: Sì. Così com'era nato, TRIciclo addirittura era dedicato alle organizzazioni nel senso più generale, categoria nella quale potevano rientrare anche le Pubbliche Amministrazioni. Ma nelle università, almeno in Puglia, c'è più resistenza nel far entrare il software libero. Per questo noi cerchiamo di creare un clima che lo favorisca.

PI: Questo vostro primo esperimento è avvenuto in un istituto dove i ragazzi sono mediamente più preparati tecnicamente rispetto ad altri tipi di licei. Come pensa andrebbe un progetto simile in un liceo classico?
MP: Io penso che ci sarebbero sicuramente lati positivi nell'utilizzo. Per esempio in un liceo classico ci sarebbe decisamente più feedback sulla parte ideologica. E poi non bisogna dimenticare l'aspetto del risparmio di denaro per l'evoluzione del laboratorio informatico.

da PUNTO INFORMATICO del 13/03/07

10.3.07

Il cinema scomparso

Il più trito dei luoghi comuni sul nostro cinema vuole che in Italia non si producano film che non siano di cassetta (principalmente commedie) e che, accanto al cinema che ha il compito di incassare, praticamente non esista una produzione più audace e autoriale, magari finanziata dallo stato e infine che quel poco che c'è incassi poco perchè di cattiva qualità. Quindi ogni volta che una pellicola vagamente fuori dalle righe, interessante e ben fatta, riesce a raggiungere una certa visibilità si grida alla rinascita.
La realtà però è molto diversa, in Italia si producono moltissimi film e moltissime opere prime grazie ai soldi dello stato, ma la stragrande maggioranza di questi viene visto solo nei festival. Perchè nel nostro paese produrre un film con i soldi dello stato rende bene e subito ma distribuirlo no.

Nel solo 2003 il Ministero per i Beni Culturali ha concesso il beneficio del finanziamento nel complesso a 117 film, l'anno seguente sono usciti nelle sale circa 73 film italiani (titolo più titolo meno). E chiaramente delle 73 pellicole che sono andate in sala almeno la metà (se non di più) erano frutto di produzioni indipendenti o delle nostre major (principalmente Rai Cinema e Medusa).
Ci sono quindi moltissimi film che ricevono i soldi dai fondi per la produzione e per la distribuzione che, se sono fortunati e vengono distribuiti, lo sono dopo 2 o 3 anni e comunque in pochissime sale. Non c'è dunque da meravigliarsi che poi incassino poco, in molti casi infatti è proprio questo l'intento delle piccole case di produzione, le quali sono libere di gestire i fondi statali senza che il regista possa sapere nulla.

Un caso più che esemplare in questo senso è quello di Giovanni Robbiano, regista di Hermano, film che al momento è distribuito in una sala a Roma e una a Milano e che ha ricevuto il finanziamento nel lontano 1999. Racconta Robbiano come "bisogna tenere presente che gli utili di un produttore sono garantiti a priori. Spesso dunque i film che ricevono il finanziamento vengono presi da produttori che vedono la possibilità di lucrarci sopra realizzandoli con mezzi ridottissimi. Poi una volta finiti, siccome farli uscire al cinema è solo un ulteriore costo, trovano una società di distribuzione connivente che faccia uscire il film in pochissime copie o anche in una sala sola, perchè lo stato poi pretende che il film sia uscito". La casa di produzione di Hermano, la GAM film ora è fallita e molti partecipanti alla produzione non sono stati pagati, tanto che Robbiano non ha nemmeno una copia del suo film per se stesso. E alla Sharada, compagnia di distribuzione incaricata di distribuire il film, si rifiutano di parlare dell'accaduto o di fornire numeri di telefono per parlare con il regista.

E rivolgersi ad altri circuiti distributivi non è più semplice, perchè far uscire un film al di fuori del circuito dei grandi presuppone una spesa ed un rischio anche per gli esercenti i quali sono un altro scoglio da superare. E di questo si lamentano le società di distribuzione come anche l'Istituto Luce che nella persona del direttore Sovena spiega come "Il problema fondamentale è che i film se non incassano non sono tenuti dalle sale. Io ho avuto film con un certo budget assegnato che andavano anche bene, ma esaurito il budget se non avevo più soldi per la pubblicità gli esercenti li levavano".
E' stato il caso di Antonietta de Lillo, regista di Il Resto Di Niente (finanziato nel 1998 e uscito nel 2005) che ora è anche in causa con l'Istituto Luce: "Il mio film dopo una produzione che è durata anni è stato accolto bene a Venezia e ha avuto anche dei riconoscimenti ai David di Donatello. Poi al momento della distribuzione è uscito con un numero di copie piccolissimo, intorno alle 20. Tuttavia nonostante questo il film in sala ha tenuto bene e anzi cresceva, gli esercenti pure richiedevano più copie ma non c'è stato nulla da fare. E quando mi sono lamentata pubblicamente di tutto ciò l'Istituto Luce mi ha citato in tribunale chiedendo 250.000€ di risarcimento".

L'interrogativo di tutti questi registi è sempre come mai lo stato non controlli cosa viene fatto con i soldi che elargisce. Un problema che il ministero non ammette esplicitamente ma solo implicitamente, dato che sta provvedendo all'approvazione di una nuova legge in materia. "Lo stato controllava l'applicazione corretta dei fondi tramite il soggetto deputato alla loro gestione, cioè la sezione credito cinematografico e teatrale della BNL, la cui responsabilità scattava al momento della delibera." spiega Gaetano Blandini, direttore della sezione cinema del Ministero Dei Beni Culturali "La BNL aveva tutta una serie di obblighi e responsabilità a cui sono sicuro ha adempiuto. Per il futuro comunque abbiamo semplificato tutto facendo coincidere il finanziamento con la garanzia e soprattutto nel nuovo sistema nessuno potrà avere erogazione di risorse se non dimostra di avere un contratto adeguato di distribuzione".

Sono storie paradossali queste della maladistribuzione, al limite del grottesco e ce ne sono a centinaia ogni anno. Come quella che racconta Diego Olivares, regista di I Cinghiali di Portici, film finanziato dallo stato nel dicembre 2001 e finalmente uscito solo cinque anni dopo in pochissime sale a luglio, il giorno prima di Italia-Francia, la finale dei mondiali di calcio di Germania. "Sono stato in concorso al festival di Torino dove ho preso la menzione speciale per la sceneggiatura assieme poi a vari altri premi e statuette di ogni genere in importanti festival europei" racconta il regista "tra cui anche il premio di Cinema Mezzogiorno, il festival organizzato da Gianni Minà, che consisteva in una distribuzione finanziata dall'Istituto Luce", una volta vinto il premio (consegnatogli da Franco Nero in una serata presentata per l'appunto da Gianni Minà) Olivares, com'è normale, ha rinunciato al fondo di distribuzione statale, sicuro ormai di ricevere l'agognata uscita. "Poi vengo a sapere che l'Istituto Luce ha smesso di elargire questo premio perchè è cambiato l'orientamento politico e quindi il tutto restava un'iniziativa autonoma di Minà". E a poco è servito al regista non arrendersi: "Io poi ho anche incontrato Gianni Minà a delle presentazioni di libri, il quale aveva detto che si sarebbe dato da fare parlando con Tizio e Caio, anche alla Rai, e che mi avrebbe fatto sapere. Cosa che poi regolarmente non è successa. Non mi ha fatto mai sapere niente e a quanto ne so non si è mosso assolutamente in nessuna direzione. So solo che alla mia obiezione -Ma che è successo?- mi ha risposto -Sa il cinema non è il mio mestiere...-".

da LA REPUBBLICA del 10/03/2007

9.3.07

La tela di Carlotta: Mai fare film con animali!

Fare un film con gli animali e con i bambini non è mai semplice, è una vecchia legge del cinema che è ancora più vera quando si tratta di fare un film che fonda animali veri, animali creati in 3D e animali veri modificati al computer.
La tela di Carlotta inevitabilmente si confronta con Babe - Maialino coraggioso, film con cui condivide i personaggi la tematica e il tipo di realizzazione, ma che è stato fatto ormai quasi 12 anni fa. E rispetto al film di Chris Noonan quest'opera di Gary Winick può contare non solo sull'esperienza del film precedente ma anche sulle possibilità moderne dell'animazione digitale, che ora non si deve limitare all'animazione dei visi ma può anche creare interamente al computer animali non ammaestrabili da far interagire con i protagonisti.

Quindi per realizzare La tela di Carlotta sono stati girati in pratica due film: uno con gli attori (cioè gli animali veri) e uno nel quale sono stati aggiunti i personaggi digitali e sono state fatte tutte quelle modifiche necessarie a rendere più umani gli animali reali e a sincronizzare i loro movimenti con le battute e la recitazione degli altri attori. E neanche a dirlo il secondo film doveva assolutamente fondersi perfettamente con il primo.

È tuttavia difficile dire quale dei due aspetti sia stato di più semplice realizzazione perchè se per la parte digitale è stato necessario lo sforzo coordinato di ben cinque visual effects houses diverse (Tippett Studio di Berkeley, Rhythm & Hues di Los Angeles, e le australiane Rising Sun Pictures, Fuel International and Digital Pictures Iloura), sul set le difficoltà non mancavano. Non era infatti possibile girare le scene con tutti gli animali presenti in contemporanea. Innanzitutto perchè era quasi impossibile mantenere costanti i loro punti di osservazione, cioè attirare la loro attenzione per far sì che guardassero sempre nella direzione giusta, e poi molti animali non andavano d'accordo: "Il cavallo non amava le mucche perchè gli stavano troppo vicine e bisognava girare le loro scene separatamente" spiega John Mahaffey, il regista di seconda unità incaricato delle scene nella stalla "e lo stesso per le oche che sono odiate da tutti gli animali. Ma non bastava girare le scene separatamente, bisognava farlo anche in un ordine specifico, in modo che non si proiettassero le ombre addosso a vicenda".

Per quanto riguarda la post produzione, il Tippet Studio era incaricato della parte più grossa, che comprendeva anche la creazione di Templeton il ratto interamente realizzato in digitale, un personaggio che avrebbe dovuto interagire con gli altri animali (reali) senza che si notasse la differenza: "Se il topo non fosse sembrato reale avrebbe rotto tutta l'illusione degli animali parlanti su cui si basa il film", spiega Joel Friesch, supervisore agli effetti speciali. "Inoltre dovevamo realizzare un ratto fotorealistico che potesse recitare, perchè all'interno del film il suo personaggio subisce una svolta. Infine, quando ormai eravamo già a riprese iniziate, ci hanno anche commissionato la realizzazione dei corvi, seguendo il medesimo principio di armonia con gli altri animali valido per Templeton".
Per raggiungere lo scopo (il fotorealismo) è stato necessario quindi un doppio lavoro, sia operativo al computer che di raccolta informazioni sul set in Australia.

Gli studi Rhythm & Hues invece erano responsabili della creazione e dell'animazione delle espressioni facciali degli animali, in modo da poter comunicare i loro stati d'animo e sincronizzare il movimento della bocca. In questo senso ogni scena ha necessitato della creazione di una "maschera facciale" digitale animata con i movimenti giusti da sovrapporre al viso reale dell'animale.
Nel frattempo la realizzazione del personaggio principale, il ragno Carlotta, era tutta sulle spalle della Rising Sun Pictures. L'animale doveva essere un ragno contemporaneamente realistico e adorabile (impresa non semplice) e naturalmente come il ratto doveva essere verosimile al punto di non stonare vicino agli altri animali. E come già è capitato spesso nel mondo degli effetti speciali si è riusciti a raggiungere il cuore dell'emozione di un personaggio fittizio puntando sugli occhi come spiega il supervisore della Rising Sun, John Dietz: "Per un ragno gli occhi sono necessariamente il punto primario di intervento, non c'è molto altro di umano. Così li abbiamo dotati di un iride umanoide, che ha reso il personaggio molto femmineo, e visto che i ragni hanno otto occhi abbiamo usato i restanti come se formassero le sopracciglia, in modo da dare espressione allo sguardo".

da MYMOVIES.IT del 09/03/07

Per vincere la sfida del tempo Soderbergh bara con il pubblico

L'idea originale alla base di Intrigo a Berlino era dare una prospettiva attuale sui classici di Hollywood, rispondere alla domanda (posta dallo stesso Soderbergh): "Cosa sarebbe successo se i realizzatori che lavoravano ad Hollywood nel 1945 avessero avuto la stessa libertà creativa che abbiamo oggi? Se non ci fosse stato il codice Hayes e avessero potuto come noi girare scene di sesso e violenza?".
La domanda in sé già contiene un anacronismo, perché non era solo il codice Hayes (un codice di autoregolamentazione e autocensura in vigore ad Hollywood dagli anni '30 agli anni '70) a limitare il sesso e la violenza nei film ma, com'è normale, anche la morale dell'epoca (quella cioè del pubblico). Prima del codice Hayes la violenza veniva rappresentata ma non come oggi, lo si faceva in una maniera giudicata inaccettabile solo in quell'epoca ma che adesso faremmo fatica a distinguere dalla violenza edulcorata dal codice Hayes. E lo stesso vale per il sesso.
Dunque in realtà quello che Soderbergh vuole mostrare in Intrigo a Berlino è come in effetti si sarebbero svolte nella realtà quelle storie anni '40, dotate cioè di una violenza e una sessualità non diverse da oggi.

L'ispirazione per l'estetica del film viene principalmente dal cinema noir (su tutti Casablanca, più volte citato durante il film e specialmente nel finale) e da alcuni film ambientati nelle città distrutte dalla guerra come Intrigo internazionale e Il terzo uomo, ma c'è anche molto Hitchcock nel modo in cui è cercata la suspense (e forse è la parte migliore).
Tecnicamente sono state molte le autolimitazioni che Soderbergh si è imposto: l'uso di obiettivi e macchine da presa disponibili anche negli anni '40, riprese fatte in set poveri e integrate con alcune immagini di repertorio girate da registi come Billy Wilder e William Wyler all'indomani della liberazione, un bianco e nero contrastato e a tratti sovraesposto, una recitazione vecchio stile ("Reciti verso la macchina da presa e non lasciando che sia la macchina a cogliere la performance come si fa oggi" ha commentato Geroge Clooney), una colonna sonora vecchio stile e inquadrature d'altri tempi (punti di vista simili a quelli usati da Orson Welles e una composizione delle scene più distante dai corpi).
È tutto "in stile" insomma, ma moderno. Come una statua greca fatta in plastica, anche se il regista preferisce metterla in un altro modo: "tutto ci riporta agli anni '40, ma l'argomento e il linguaggio sono quelli di oggi e la storia stessa è ricca di idee troppo provocatorie per essere affrontate in quegli anni".

Eppure vedendo il film l'impressione che se ne ha è un'altra. Sembra che siano stati presi contenuti moderni e li si sia invecchiati anziché aggiornare un vecchio modo di fare cinema, che è quello che fa (nei suoi migliori exploit) Tarantino. In Pulp fiction (stato dell'arte di questo tipo di cinema) la citazione raggiunge un tale livello di pervasività anche formale che alla fine il film stesso diventa una grossa citazione di un cinema d'altri tempi; un'opera moderna fatta secondo logiche passate.
Intrigo a Berlino invece bara continuamente. Il bianco e nero non è originale (è una pellicola colorata portata in bianco e nero) e le illuminazioni, benché orchestrate secondo tagli di luce come era tipico di quegli anni, sono moderne. Lo stesso dicasi per l'effetto di sovraesposizione e tutto il resto.
Nessuno mai potrebbe scambiare una qualsiasi sequenza del film per una di un vero noir d'epoca. Le inquadrature partono in stile anni '40 ma subito la macchina da presa si muove in maniera vorticosa e assolutamente moderna. Tuttavia più di ogni cosa è la narrazione della storia a non avere niente a che vedere con un film anni '40. Per questo le parti migliori sono quelle più smaccatamente moderne come la discesa di Cate Blanchett nel rifugio del "good german" del titolo originale.

Se infatti il soggetto poteva in effetti calzare, lo stesso non si può dire per l'intreccio e lo svolgimento, troppo complesso e intricato. Soprattutto non si tiene conto del fatto che nei decenni le figure archetipe della narrazione sono cambiate. George Clooney incarna in una storia anni '40 un eroe moderno, non un eroe dell'epoca. Non c'è la spirale di perdizione, non c'è l'universo di sconfitte e nemmeno l'inettitudine, al loro posto ci sono caratteristiche più moderne come l'investigazione (in un modo che nemmeno Chandler si arrischiava a raccontare), il superomismo bondistico e l'assenza di macchie e di paure. E non basta che George Clooney scimmiotti Cary Grant e Cate Blanchett guardi a Marlene Dietrich, anzi, proprio questo costituisce l'essenza della slealtà di Soderbergh verso lo spettatore, che tenta di convincerlo che ci sia un'imitazione di vecchi modelli quando in realtà non è vero.
E se queste caratteristiche prese singolarmente, sfuggono allo spettatore medio, di certo non gli può sfuggire il senso globale. Alla fine la sensazione non è di aver visto un film d'epoca aggiornato ai giorni nostri ma di aver visto un film moderno girato in bianco e nero, in una maniera non troppo dissimile da Schindler's list che tuttavia aveva il pregio di non voler barare, di ammettere da subito e con orgoglio la sua modernità.
A questo punto sembra avere molto più senso un'operazione come quella fatta qualche anno fa da Gus Van Sant che ha preso la sceneggiatura di Psycho di Alfred Hitchcock e l'ha rimessa in scena allo stesso modo, utilizzando le medesime riprese ma variando unicamente su ciò che non è replicabile cioè su elementi come il colore, la recitazione, l'illuminazione, la fotografia ecc. ecc. Come si fa a teatro dove si rimettono in scena opere passate tenendosi in bilico tra fedeltà all'originale e innovazione personale.

da MYMOVIES.IT del 01/03/07