28.6.07

Cinque studi di effetti speciali per quattro super eroi più Silver Surfer

Una compagnia diversa per ogni personaggio
Per il secondo capitolo cinematografico delle avventure dei Fantastici Quattro, la produzione ha confermato la squadra vincente del primo film continuando con l'idea, che si sta diffondendo sempre di più negli ultimi tempi, di avere team di tecnici diversi al lavoro su elementi diversi del film. Dunque anche per I Fantastici Quattro e Silver Surfer ogni personaggio è stato curato da uno studio di effetti speciali differente, in modo che si potesse lavorare in parallelo e che non fossero mai usate due volte le medesime soluzioni di animazione.
Poche dunque le differenze di resa visiva rispetto al primo episodio, come i ritocchi e le migliorie alla fiamma della Torcia Umana e altri piccoli particolari inseriti a furor di popolo, come ad esempio le sopracciglia rocciose della Cosa, che mancavano nel primo film ed invece sono una caratteristica fondamentale del personaggio nei fumetti.
Tuttavia il personaggio più interessante dal punto di vista della realizzazione tecnica continua a rimanere la Donna Invisibile.

Invisibile come il vetro
Molti sono stati i problemi da risolvere per la messa in scena della Donna Invisibile, innanzitutto perchè si tratta di una delle attrici più importanti del film che quindi non può non essere in scena per la gran parte della pellicola e poi perchè l'invisibilità è un concetto con il quale il cinema si misura fin dai suoi esordi attraverso mille possibili declinazioni e mille trovate differenti.
Questa volta il compito era dunque non solo di staccarsi da ciò che è stato fatto in precedenza creando un concetto di invisibilità cinematografica differente (anche se comunque debitrice alle trovate estetiche presenti nel fumetto) ma anche mantenere la riconoscibilità di Jessica Alba.
La soluzione è arrivata paradossalmente pensando a come viene spiegato il potere della donna invisibile nei fumetti. Secondo le teorie di Reed Richards infatti la moglie diventa invisibile poichè riesce a creare attorno a sè un campo che non rifrange la luce, da questo i tecnici hanno provato a pensare a quali materiali o a quali oggetti nella realtà si comportino in questo modo e sono così arrivati alla soluzione di far sembrare il corpo di Sue Storm come fatto di vetro. In questo modo gli spettatori possono ancora vederne i contorni e le fattezze (come accade nei fumetti) pur capendo al volo che in realtà per i personaggi del film è qualcosa di invisibile.

Silver Surfer "ossidato"
Ma la vera novità del film era chiaramente Silver Surfer, personaggio attesissimo che ha richiesto un massiccio intervento tecnologico. In questo caso il problema era di ordine narrativo, non solo infatti Silver Surfer doveva essere riprodotto in maniera fedele al fumetto ma doveva anche esserci una marcata differenza nella sua apparenza tra quando è a bordo della sua tavola e quando ne viene privato.
La prima scelta è stata quasi obbligata: il personaggio doveva essere necessariamente tutto animato in digitale (con l'aiuto del motion capture dell'attore Doug Jones, che già era stato il mostro senza faccia di Il labirinto di Pan) poichè questo era decisamente più semplice che utilizzare un attore vero e aggiungere effetti speciali alle moltissime sequenze altrimenti irrealizzabili. Così il personaggio è stato messo nelle mani degli animatori, i quali sapevano che Silver Surfer avrebbe subito una modifica estetica lungo il film per far capire che quando non è in possesso della tavola perde molte delle sue qualità.
Data la natura argentea di Silver Surfer si è optato per farlo apparire come "ossidato" quando privo della tavola, l'equivalente per l'argento dell'invecchiamento per gli uomini, sinonimo quindi di debolezza, affaticamento e in generale di peggioramento delle condizioni.

da MYMOVIES.IT

Transformers tra modelli reali e creazioni al computer

La trasposizione cinematografica di un prodotto di culto
I Transformers sono un tipico esempio di prodotto culturale declinato attraverso vari media: fumetti, cinema, televisione, merchandising. Si tratta di un brand creato dalla Hasbro decenni fa e che ha imperversato dall'America al Giappone in diverse maniere nell'immaginario collettivo. Già finiti al cinema una volta con un lungometraggio animato, ora ritornano nelle mani di un forte produttore (Spielberg) e di un regista da botteghino (Michael Bay) per il classico blockbuster ad alto tasso di effetti speciali.
E come spesso accade per le produzioni più importanti (specialmente per quelle dietro le quali c'è Steven Spielberg) gli effetti speciali sono stati affidati alla Industrial Light And Magic, lo studio numero uno del settore, che ancora una volta ha fatto un lavoro assolutamente senza paragoni.
Il problema questa volta era declinato in diverse dimensioni: rendere la verosimiglianza di robot altri metri e metri, animare con credibile fluidità le trasformazioni e integrarli alla perfezione nelle complesse scene d'azione.

Un casting sui generis
Il cinema di Michael Bay è molto semplice e prevedibile, fatto tutto di effetti al rallentatore, movimenti di macchina vorticosi e circolari e riprese ad effetto dense di elementi spettacolari. Non è stato dunque difficile per gli esperti della ILM prevedere in che tipo di riprese e di ambiente sarebbero entrate le loro creazioni, i loro Transformers virtuali.
Un lavoro che dunque dal punto di vista registico non ha presentato particolari difficoltà, ma che invece è stato molto complesso dal punto di vista dell'ideazione, ovvero la parte a monte.
Innanzitutto è stato importante decidere quali Transformers inserire nella storia: se infatti i classici Bumblebee, Megatron e Optimus Prime non potevano mancare, gli altri erano tutti da decidere. Per non scontentare nessuno, o quantomeno per scontentare il minor numero di persone la produzione ha deciso di procedere chiedendo ai fan quali Transformers avrebbero voluto vedere sullo schermo e poi facendo un sondaggio interno per stabilire (dopo la visione ripetuta di molti episodi della serie) quali erano secondo i membri della troupe che avrebbe dato vita al film i personaggi più interessanti. La fusione dei due sondaggi ha decretato il cast finale.

Le necessarie differenze tra un cartone e un film
Ma ancora più importante della scelta di quali robot inserire nel film è stato fondamentale scegliere in quale maniera i robot sarebbero stati resi sullo schermo, quanto cioè sarebbe stato necessario allontanarsi dalla versione televisiva dei personaggi. L'idea era naturalmente di rimanere il più fedeli possibile, sempre per non scontentare i fan, ma i film necessariamente hanno esigenze diverse dei cartoni e le rappresentazioni di questi ultimi erano troppo semplicistiche per reggere il confronto con la realtà. A differenza delle serie animate infatti i robot del film di Michael Bay dovevano necessariamente sembrare verosimili.
Per fare un esempio l'Optimus Prime della serie animata è abbastanza rigido nei possibili snodi e movimenti, mentre quello del film si compone di 10.108 parti differenti tutte quante animate separatamente. E se i momenti in cui i robot si trasformano sono stati i più semplici da realizzare (e anche quelli per i quali gli animatori si sono potuti sbizzarrire con le soluzioni più creative) quelli più complessi sono stati di converso i momenti in cui i robot si devono muovere realisticamente, perchè come sempre sono i movimenti di stampo umano i più complessi, quelli con i quali abbiamo più dimestichezza e conosciamo meglio.

Il realismo delle superfici
Ma non è tutta animazione computerizzata quella che si vede in Transfomers.
Come alcune foto scattate sul set e girate in rete prima dell'uscita del film hanno dimostrato, esistevano anche delle ricostruzioni reali dei giganteschi robot, utili per le scene in cui questi non devono muoversi e vengono avvicinati dagli umani.
Il problema in questo caso era di non far notare allo spettatore medio lo stacco tra le scene in cui il robot è una creatura computerizzata e quelle in cui si tratta di una ricostruzione dal vivo. Obiettivo che gli specialisti della fotografia e della ILM centrano perfettamente. Infatti solamente un occhio esperto di rende conto della differenza tra le scene con robot virtuali e quelle con modelli reali.
Questo accade grazie alla complessità delle texture, ovvero quei "motivi" o "trame" che riempiono le superfici. Quando bisogna disegnare al computer un modello 3D di un qualsiasi oggetto che sembri reale non si può dare alla sua superficie un colore unico come si farebbe in un cartone animato, perche nella realtà le superfici hanno diverse sfumature a seconda del materiale di cui sono composte o di come la luce vi batte. Per questo vengono usate le texture, disegni che imitano una superficie tridimensionale che può essere una corazza di metallo come un tipo di terreno.
Nel caso dei Transformers le texture applicate alle corazze di metallo erano talmente accurate e definite nei minimi dettagli (specialmente per quanto riguarda il colore e la gestione del riflesso della luce) da essere quasi indistinguibili dagli equivalenti reali. Un vero passo avanti per questo genere di animazione.

da MYMOVIES.IT del 27/06/07

20.6.07

Quanti Surface prima di Surface

Roma - Se Milan, il surface computer di Microsoft, ha segnato un passo in avanti nell'evoluzione delle interfacce grafiche, lo stesso non si può dire dal punto di vista della progettazione dell'hardware. Infatti l'idea di un computer che stia sotto un tavolo è qualcosa che gira nell'aria da molto tempo, come già avevano dimostrato, ad esempio, le idee di Nolan Bushnell. Tanto che anche in Italia abbiamo i nostri esempi di computer da tavolo, o tavoli da computer, dedicati all'intrattenimento.
Ci aveva lavorato su Carmelo Civiesse, che ha ideato, progettato, realizzato e ora sta cominciando anche a distribuire un computer da tavolo che funziona con il tocco da installare in locali come ristoranti, pizzerie e pub e che ha il doppio intento di agevolare le ordinazioni e intrattenere i clienti. Infatti, una volta ordinato da mangiare o da bere attraverso il monitor, sotto la superficie del tavolo si riceve un credito che dà diritto ad usufruire dei giochi o degli altri servizi (come la chat, la selezione di canzoni per il video jukebox, la stampa delle foto direttamente dal telefonino via bluetooth).
Si tratta di uno schermo LCD da inserire al di sotto del vetro (un centimetro di cristallo temperato) del tavolo, in modo da proteggerlo dallo sporco e dall'unto, e che ha sotto di sè un case customizzato per non dare fastidio. Per il resto dunque è un normale computer equipaggiato con Windows XP e in grado di far girare il software messo a punto sempre da Carmelo Civiesse.
L'idea potrebbe sembrare (soprattutto per le potenzialità) il fratello minore di quanto stia facendo Microsoft, ma Civiesse non è d'accordo: "Microsoft ha fatto un prodotto diverso dal mio, anche se è sempre per i locali pubblici: loro hanno creato un po' un giocattolone. Ancora non si capisce bene a che possa servire il multitouch, ci possono fare giusto dei giochini... Noi utilizziamo un tocco solo invece perché non abbiamo sviluppato nessuna tecnologia per l'occasione, giusto l'hardware".

Punto Informatico: A quando risale il vostro progetto?
Carmelo Civiesse: Il progetto è nato qualche anno fa, abbiamo iniziato a svilupparlo all'inizio del 2005 ed era pronto ai primi del 2006. Il primo locale l'ha installato quindi ad agosto 2006. Era un locale campione che ha fatto da tester e adesso stiamo facendo partire la commercializzazione a livello nazionale ed europeo.

PI: Come fa il sistema a discriminare tra il tocco di un dito e l'appoggio di un bicchiere o di un altro oggetto?
CC: Abbiamo due versioni del tavolo, uno con un touchpad come quello dei portatili, un'area di lavoro molto limitata dove si usa il dito, tipo notebook. E poi c'è la versione con il touchscreen che funziona con lo stesso principio del condensatore, con la proiezione capacitiva, cioè non funziona come al solito con la pressione su una superficie ma è in grado di riconoscere il dito creando una capacità tra il dito e lo schermo. Non è quindi una questione di grandezza, ma ha più a che vedere con il fatto che tra le varie proprietà del corpo umano c'è anche quella di essere un conduttore elettrico.

PI: Come avete programmato il software?
CC: Il sistema operativo è Windows XP e tutto il software è stato programmato in Visual Studio, quindi ambiente Microsoft. Si tratta di programmi che possono anche girare in rete (sia ethernet classica o anche wireless).

PI: Vi siete ispirati all'idea che aveva avuto Nolan Bushnell qualche anno fa?
CC: Non lo conosco.

PI: A cosa vi siete ispirati allora?
CC: Quando ero ragazzo, nel 1984 avevo comprato il Vic20 e da quel momento ho sempre pensato che una cosa simile sarebbe stata molto interessante. Ultimamente ho avuto la possibilità di acquistare un locale da uno zio, ho creato questa pizzeria e ho pensato che finalmente potevo realizzare la mia idea.

PI: La sperimentazione come va? Avete incontrato grossi problemi?
CC: Bene, il software è affidabile e la gente lo trova molto interessante; chiaramente attrae più che altro i ragazzi che lo usano soprattutto per la chat o per i giochi come Chi Vuol Essere Milionario. I problemi più grossi che abbiamo incontrato in fase di sperimentazione sono stati nell'ordine di far capire le cose alla gente: anche se siamo in una società piena di tecnologia la gente quando si siede guarda i prodotti in maniera molto distaccata.

da PUNTO INFORMATICO del 20/06/07

8.6.07

Il nuovo corso dell'animazione Disney, con un occhio puntato alla Pixar

Il primo film dalla fusione con la Pixar
Da quando la Disney ha deciso di darsi al cinema d'animazione realizzato interamente al computer ha fatto uscire tre film: Chicken little, Monster house e ora I Robinsons. Di questi tuttavia solo l'ultimo è stato realizzato dopo la fusione con la Pixar, la casa d'animazione numero uno in materia di cartoni animati in computer grafica, già creatori di successi come Alla ricerca di Nemo e Gli Incredibili.
La mossa è stata propedeutica ad un rinnovamento dello stile narrativo della storica casa di Topolino e ad un arricchimento dal punto di vista tecnologico, sperando di poter contare sull'esperienza e l'abilità dei tecnici Pixar, cosa che si è verificata solamente in parte. Se infatti dal punto di vista narrativo I Robinsons è ancora una scimmiottatura degli equivalenti Pixar dal punto di vista tecnico invece i passi in avanti sono stati giganteschi e tutti nella direzione indicata dallo studio di Steve Jobs.

Scorciatoie per aggirare il problema di animare personaggi umani

Già tra Chicken little a Monster house c'era una netta differenza realizzativa, anche perchè il secondo era stato realizzato avvalendosi del motion capture facciale, cioè animando le espressioni dei visi dei protagonisti con i movimenti reali di attori reali che venivano "catturati" con appositi sensori. Una differenza che era dunque attribuibile ad un cambio di tecnica, ma ora, tornati al disegno computerizzato non aiutato dalla cattura dei movimenti, la Disney ha dimostrato di aver incorporato e usufruito dell'esperienza e della tecnica Pixar.
Lo si vede innanzitutto dai tempi, I Robinsons è stato realizzato in molto meno tempo di Chicken little e molto meglio, segno che c'è stata una forte ottimizzazione, specialmente in un'area (l'animazione di personaggi umani) che notoriamente è la più difficile. Non solo infatti è complesso rendere con il disegno computerizzato la varietà e la fluidità dei movimenti del corpo umano ma è anche qualcosa di cui tutti gli spettatori (anche i meno tecnologici) hanno una forte esperienza e sono quindi in grado inconsciamente di riconoscere subito quando un'animazione non è buona.
Per questo uno dei trucchi più usati è disegnare i personaggi in maniera poco realistica e più fumettosa. Lontani i tempi in cui il disegno a mano consentiva animazioni come quella di Biancaneve e i sette nani o La carica dei 101, dove i personaggi sono disegnati in maniera realistica, ora l'imperfetto disegno computerizzato per animare i personaggi è costretto ad usare la scorciatoia del fumetto, cioè creare personaggi che siano umani ma non debbano necessariamente somigliargli in tutto e per tutto, riducendo così l'identità tra i movimenti che percepiamo tutti i giorni e quelli che vediamo su schermo.

Un film pensato direttamente in 3 dimensioni
Altra caratteristica di I Robinson è quella di essere stato il primo film Disney pensato per la proiezione 3D. Già gli altri film infatti erano stati distribuiti in sale equipaggiate per la proiezione in tre dimensioni ma si trattava di versioni adattate. In solo un anno infatti si è passati dalle quasi 80 sale equipaggiate con proiettori tridimensionali che hanno ospitato la versione adattata a tre dimensioni di Chicken little, alle 162 che hanno potuto offrire l'adattamento 3D di Monster house, fino alle 600 che a marzo hanno ospitato l'ultima fatica in tre dimensioni della Disney. E questa volta come detto non si è trattato di un adattamento ma di un cartone che per la prima volta è stato scritto e pensato già sapendo che ne sarebbe uscita una versione tridimensionale.
Questo ha consentito la pianificazione e la creazione di suggestioni ed effetti assolutamente originali, lo spiega Phil McNally del team dell'animazione: "Abbiamo scritto una sceneggiatura per l'intero film tenendo ben presente la profondità di ogni scena, in modo da usare il 3D per rendere più suggestiva la narrazione. Per esempio abbiamo sottratto profondità alle immagini fino a che Lewis non arriva nella città del futuro, dove al contrario l'abbiamo aumentata moltissimo. Certo il pubblico non deve accorgersi di questi cambi, deve semplicemente avere l'impressione di essere catapultato in un mondo ancora più vasto".

da MYMOVIES.IT del 7/06/07

4.6.07

RECENSIONE Turistas

Un gruppo di turisti provenienti dal mondo ricco (Australia, Stati Uniti e Inghilterra), messi insieme da un incidente con il bus che li porta attraverso il Brasile, finiscono su una spiaggia dove bevono e ballano fino al mattino, quando, risvegliati da un sonno innaturale, si accorgono di essere stati drogati e derubati. Da qui inizia il loro inferno personale nella giungla brasiliana dove capiranno ben presto che non c'è via d'uscita e nella quale rischiano di essere preda di un trafficante di organi che li espianta a turisti ricchi per donarli a bambini poveri.
Con poco gusto per il gore e lo splatter (presente solo a tratti) e una decisamente più spiccata propensione alla costruzione della tensione, John Stockwell confeziona novanta minuti tirati nei quali l'umido scenario dei paradisi brasiliani diventa da subito (fin dal problematico viaggio in bus) un inferno, facendo leva sapientemente su molte delle paure inconsce dei turisti.
Se l'idea del gruppo di persone impossibilitate a sfuggire ad aguzzini che operano nel loro territorio al di fuori della legge è uno spunto classico, Turistas lo declina in una dimensione inedita, il turismo di massa, e con molta intelligenza e sapiente uso dei propri mezzi. Anche le scene migliori (come il bellissimo l'inseguimento mozzafiato sott'acqua) non giungono mai gratuitamente e fini a se stessi, ma si inseriscono in un preciso meccanismo. In più la fotografia sgranata, la macchina da presa poco mobile e molto invisibile, l'uso del sonoro e infine quello di una miscelazione dei colori che si adatta di scena in scena, fanno fare un deciso salto in avanti al film che da una struttura di serie B (asciutta, rapida e senza preamboli o lunghe code finali ma incentrata unicamente sugli avvenimenti fondamentali) tira fuori una bella divagazione sulle fobie umane al pari di altri film cult in materia come The hitcher, Detour o Cuba Libre.
Il film è stato molto osteggiato dal governo brasiliano, per nulla contento dell'immagine che emerge del suo paese (anche se il finale riserva una concessione ai buoni brasiliani anche un po' fuori luogo), criticando uno degli aspetti invece più interessanti dell'opera cioè il voler mostrare (senza crearsi problemi o limitazioni) una realtà senza scampo dove l'uomo è ancora il lupo dell'uomo nel senso più fisico del termine e dove le motivazioni sociali (il medico espianta organi ai turisti come contrappasso per il commercio illegale che i loro paesi fanno di organi dei poveri brasiliani) sono marginali e non costituiscono nemmeno una parziale giustificazione.


da MYMOVIES.IT

Musica, gli italiani che scelgono le CC

Roma - "Ho scelto di distribuire la mia musica sotto licenza Creative Commons perché è un'opportunità per conoscere e per dire: io ci sono", questa è una delle tante risposte ottenute da Punto Informatico indagando tra le migliaia di musicisti indipendenti che hanno scelto siti che distribuiscono musica con modalità alternative, nuove piattaforme per farsi sentire, per conoscere altri artisti e per ottenere subito il feedback degli appassionati di musica.

Dalle prima indagine appare anche evidente che se qualcuno sceglie le licenze CC perché simbolo del copyleft e di un nuovo modo di fare cultura, altri la vedono esclusivamente come una opportunità: la CC ben si adatta a nuovi modelli di distribuzione. Non è un caso se pressoché tutti si dicano fin qui soddisfatti dei "jukebox" in CC, spesso vissuti come uno dei più importanti ma non l'unico mezzo di interazione con gli appassionati di musica in rete.

Di tutto questo Punto Informatico ha parlato con numerosi musicisti, qui si raccolgono le risposte che ci hanno fornito Danilo Taddei, iscritto alla SIAE da 10 anni e solo da poco nel mondo della distribuzione alternativa nel quale ha portato tutti i propri lavori, Antonio Sacco, DJ dal 1981 che gradualmente è passato alla produzione grazie alle nuove tecnologie, e Djblaster AKA Danilo Sanfilippo che si dedica quotidianamente alla musica, la sua principale forma d'espressione.

Punto Informatico: Distribuire sotto Creative Commons attraverso piattaforme alternative. Cosa ritieni di aver guadagnato da quest'esperienza?
Antonio Sacco: Ho pubblicato il mio materiale da poco, in quattro giorni in linea una quarantina di persone hanno cominciato a scaricarlo e a condividerlo, più un blog che mi ha recensito, quindi tutto per ora è positivo, è il mondo che ti segue e ti osserva. Sono rimasto molto stupito del successo che ho avuto. Per adesso lo faccio solo per capire qual è il feedback degli ascoltatori, non c'è ancora l'ambizione di fare business. Anche se già si sono fatti avanti un paio di grossi distributori per mettere in commercio le mie cose, e questo mi sorprende in maniera positiva, perché chi ascolta c'è! Invece con la precedente distribuzione trovavo solo una parte dell'attenzione da parte della gente, e per chi fa musica l'obiettivo numero 1 è farsi ascoltare.

Danilo Taddei: Di guadagnato niente, ma tanto nemmeno mi ci sono informato, tanto devo comunque fare un altro lavoro... Il nome è girato un po' poco, ma ho avuto contatti con persone che hanno fatto dei podcast (poi bisogna pure valutare la validità di quello che faccio) ma mi sembra ancora poca cosa... Però devo dire che l'idea è bellissima e funziona benissimo... Si vede che c'è un lavoro grosso dietro. Poi loro (le piattaforme distributive, ndr.) hanno operatori interni, ti mandano i consigli, ti chiedono di fare ascolti, c'è insomma tutto un movimento interno.

Danilo Sanfilippo: È andata molto bene! Basta chiedermi formalmente il permesso di utilizzo e il pezzo puo' girare senza dover pagare alcunché. In più il mio nome è girato molto soprattutto grazie a Jamendo e a tutti i podcaster che trasmettono canzoni esclusivamente CC (come nissardo e paolo bianchi). Ci ho guadagnato di sicuro la possibilità di girare in vari podcast formalmente senza alcuna burocrazia e mi sto facendo anche tanti amici competenti. Però ancora non ho avuto alcuna sovvenzione.

PI: Che piattaforme utilizzi per veicolare la tua musica?
Sacco: Per ora siti come Jamendo e sto per contattare anche Magnatune. Volevo lasciare anche a loro le mie cose. Poi la mia prossima idea è di prendere uno spazio su MySpace e vedere che succede, ma non ho troppa fretta anche perché Jamendo mi sta sorprendendo in maniera positiva.

Taddei: Prima mettevo gli mp3 sul sito e chi voleva se li scaricava, poi con Jamendo ho trovato un modo per inquadrare la cosa, ti prendi la licenza CC, ti danno il lettore da mettere sul blog e poi ti consentono di mettere file in formato Wav e non MP3, che ha una qualità migliore. E poi il player è comodissimo. Certo, vorrei affiancare anche una distribuzione più tradizionale ma le radio indipendenti accessibili come Radio Città Aperta sono pochissime, per cui adesso sto iniziando a pensare ad altri canali come MySpace e cose così, ma se dietro non hai spinte più forti è difficile.

Sanfilippo: Conto molto su siti come Jamendo oltre certamente al mio sito personale e a MySpace.

PI: Perché distribuire musica in Creative Commons?
Sacco: Perché adesso usare i canali istituzionali, come si fa di solito, non rende come usare internet. Basta che uno ti scriva una recensione positiva che dietro a lui ce ne sono altri 20 che seguono i suoi consigli: si attiva così un meccanismo piramidale a partire da uno solo. Quindi pure se poco remunerativo dal punto di vista artistico è comunque un mondo fantastico, si raggiungono obiettivi altrimenti irraggiungibili. Poi magari arriva pure il distributore. Prima invece ti dovevi far conoscere, dire cosa proponi...

Taddei: Perché far girare la voce, se ci si organizza il rumore diventa più forte e si spera sempre che i canali che veicolano il rumore lo veicolino davvero e non lo attutiscano. Alla fine è una scelta esistenziale di fruizione libera delle cose, anche perché spesso poi gli introiti di un'artista sono i concerti, gli spot e il CD diventa una cosa minoritaria.

Sanfilippo: Perché il diritto d'autore come è concepito è vecchio e mina la creatività degli artisti emergenti, oltre ovviamente a fermare la libertà di conoscenza ed espressione. La licenza che ho adottato per esempio prevede che venga riconosciuto il merito dell'artista, che non si usi l'opera per scopi commerciali e che si distribuiscano eventuali opere derivate con la stessa licenza. Ho scelto questa perché sposa perfettamente la mia filosofia sulla distribuzione musicale, la proprietà intellettuale vista in modo tradizionale è troppo costrittiva e restrittiva, troppe clausole e burocrazia, la musica va suonata e fatta girare senza intermediari se non l'artista stesso.

PI: La tua è stata una scelta ideologica o di opportunità?
Sacco: Entrambe, le metterei al 50%. È ideologica perché pur mettendo a disposizione i miei brani gratis ho comunque i miei diritti e se qualcuno tra quelli che ascolta trova un sample interessante e lo vuole usare me lo deve chiedere, né si possono fare download commerciali. Ed è opportunista perché voglio farmi conoscere da gente che non avrei mai raggiunto, anche in giro per il mondo. Certo se poi devo dire quanto è costato e quanto ricavo non ha senso dirlo, è il momento di pazientare e vedere se con il tempo questo fenomeno fa il suo corso e c'è qualcuno che prende ciò che metto in rete.

Taddei: Entrambe, perché io da sempre faccio il download gratuito dal mio sito e perché poi mi conviene mettere in linea una cosa finita e con una licenza. È una cosa che ti aiuta ad organizzare tutto il materiale.

Punto Informatico: Hai avuto altre esperienze di distribuzione musicale oltre a quella in CC?
Sacco: Sì, ho fatto i primi due album in maniera istituzionale passando per i negozi e tramite un piccolo centro di distribuzione del centro Italia. Ho messo in piedi un po' di copie, poi date in conto vendita a questa distribuzione ed è andato discretamente, niente di esaltante. Mentre l'esperienza che sto avendo è molto positiva perché il download gratuito è una possibilità in più di aumentare i contatti.

Taddei: Solitamente finito il CD comincio a mandarlo in giro sulle radio e sui canali che ho modo di contattare. Su siti come Jamendo in un giorno fai tutto, mandi, pubblichi, fai la licenza CC ed è tradotto in tante lingue e non ho mai avuto problemi di nessun tipo.

Sanfilippo: no, a parte aver distribuito senza alcuna licenza per i primissimi tempi, ho sempre usato la CC.

PI: L'obiettivo finale rimane comunque la distribuzione tradizionale?
Taddei: Certo uno vorrebbe come lavoro dedicare le giornate a quello che ti piace e non fare l'idraulico dalla mattina alle 7. Quando suoni è perché non potresti non suonare. È ovvio che l'obiettivo è viverci, ma un musicista che vuole fare roba originale può anche morire nell'attesa di emergere, io ho 36 anni e conosco anche altri musicisti ma alla fine nessuno va da nessuna parte: c'è chi apre la scuoletta, chi trova altri stratagemmi...
Non so dire se può reggere da solo o essere solo un trampolino. All'atto pratico non me n'è venuta una lira.

PI: Secondo te quello dei Creative Commons è un modello che potrebbe favorire anche i grandi musicisti?
Sacco: È un quesito al quale ha risposto bene il mentore dei Talking Heads, disse che effettivamente la musica deve essere gratuita e renderla gratuita non esclude la possibilità (un domani) di mantenere i diritti e il giusto guadagno per l'artista. A pagamento devono essere i modi di proporre musica dal vivo che è l'essenza dell'artista.

Taddei: A loro potrebbe sicuramente convenire, ma il problema ormai è che la veicolazione non ha più voce in capitolo nel budget, è tutto promozione: 30 secondi in prima serata constano mezzo miliardo. Poi è ovvio che un artista che invece ha già un nome con il peer-to-peer potrebbe anche ottenere un bacino di utenza infinito. Siamo in una fase di mezzo, non ancora del tutto in Internet, stiamo tutti con un piede dentro e uno fuori, non del tutto convinti.

Sanfilippo: Grande musicista significa spesso grande fatturato e a quei livelli è difficile privarsi di una tutela. Quindi per il momento credo non convenga, dobbiamo aspettare che i giovani di oggi che suonano free diventino grande musicisti, probabilmente a quel punto sarebbe fattibile.

da PUNTO INFORMATICO del 4/06/07