10.10.08

Il punto sullo stato di YouTube

Roma - È difficile non pensare a YouTube come ad un successo. È uno dei siti più visitati in assoluto, la libreria di video più vasta e importante della rete, nonché una società che Google ha valutato 1,65 miliardi di dollari. Eppure non è una notizia il fatto che YouTube, frenato ed esaltato dai contenuti generati dagli utenti, non sia anche un successo economico. A tre anni dalla sua nascita e a due dal suo ingresso nelle braccia del più grande rivenditore di spazi pubblicitari, il sito che ospita il 34% dei video visti in rete (dati comScore) ha dato vita ad un settore ora pieno di diverse diramazioni e di competitor ma che non trova un modello di business valevole.

AlleyInsider sostiene che nel 2008 Google è riuscito a monetizzare solo il 4% circa dei 4,2 miliardi di video che i suoi utenti hanno visto, cioè più o meno 126 milioni di video, e attraverso un sistema non eccessivamente redditizio. E nonostante 126 milioni di video sia comunque una cifra considerevole, bisogna aggiungere che la società deve sopportare anche costi di banda e di hosting non indifferenti. Senza contare le infinite spese legali che le accuse di violazione del copyright gli portano.
Di contro un servizio come Hulu.com (una joint venture tra studi di produzione visibile solo ai residenti in America) mandando in streaming gratuitamente e legalmente film e show televisivi dai principali network (NBC, Universal, Fox, Warner, CBS ecc. ecc.) riesce a monetizzare ogni singolo minuto dei suoi 88 milioni di video visualizzati. Si tratta di circa un quarto in meno di quanto ha fatto YouTube e con costi infinitamente minori.
Hulu non è uno strumento sociale, sfrutta un'incredibile inerzia creativa e produttiva consentendo, a fronte di poca pubblicità, la visione gratuita di contenuti che già sono passati in televisione e che hanno l'unico vantaggio della disponibilità on demand.

YouTube invece è pieno di contenuti originali, creativi e interessanti che sono visti, consigliati, inviati via mail, embeddati nei blog e commentati migliaia di volte ma che lo rendono inaffidabile per gli investitori, i quali non credono nella pubblicità associata ai video generati dagli utenti e ne temono i contenuti imprevedibili. In sostanza ad oggi se mantiene i contenuti generati dagli utenti i costi a loro legati gli impediscono di decollare economicamente mentre se li elimina perde tutto il suo successo a favore di chi, come Hulu, i contenuti professionali li produce e li gestisce in casa. Questo perché sono proprio la socialità e i contenuti generati dagli utenti la componente più dirompente e devastante del video online, capace di creare nuovi modi di vivere ed entrare in contatto con le forme di racconto audiovisuale.
E la dimostrazione più evidente di tutto questo è che dopo anni di dominio della tecnologia le cattive compagnie sono tornate ai vertici delle fobie sociali. Ora infatti sono di nuovo gli esseri umani, benché comunque attraverso una tecnologia (che rimane un oggetto sconosciuto per molti e dunque spaventoso), a costituire una delle principali fobie sociali: quelli che "entrano nelle vostre case attraverso le connessioni internet dei vostri computer (per) incoraggiare i bambini a costruirsi un Bong o bersi una birra a 13 anni" sono parole di John Walters, direttore dell'Office of National Drug Control Policy, un organo costituito dal governo degli Stati Uniti d'America, paese tecnologicamente più evoluto della media.

Dunque le persone guardano e molto i contenuti prodotti da altri utenti ma gli investitori pubblicitari non vogliono esservi associati e in questo modo la situazione non fa che peggiorare. Secondo un sondaggio fatto presso i principali network da NewTeeVee un annunciatore di uno show settimanale in rete come può essere Rocketboom guadagna da un minimo di 100 dollari a puntata ad un massimo di 1.000, cioè 4.000 dollari al mese di guadagno massimo per un business dove i visitatori si possono contare in alcuni casi anche nell'ordine dei milioni.
Inoltre sempre i principali network spiegano che con l'aumentare degli utenti e del materiale video si abbassa il CPM (cioè il costo di uno spot per migliaio di impressioni) il quale è passato in un anno da una forbice che oscilla in media tra i 20 e i 30 dollari (a seconda del piazzamento e del tipo di video) ad una che oscilla tra i 10 e i 20 dollari.
Infine se si calcola quanto incida l'investimento pubblicitario nei video in rete sul totale televisivo si scopre che oggi conta per una parte minima e anche le previsioni più rosee sostengono che tale stima possa arrivare ad essere il 7,6% del totale per il 2013. Questo a meno che non succeda qualche sconvolgimento.

E quello sconvolgimento oggi Google lo identifica con il commercio parallelo, cioè vendere (o per il momento aiutare a vendere) beni collegati ai video fruiti, qualsiasi essi siano. Tra le prime e più facili applicazioni di questo progetto c'è la vendita dei videogiochi abbinati ai video di gameplay e quella ancora più importante della musica che si ascolta nei suoi video (attraverso partner come iTunes o Amazon Mp3). Cosa che in realtà al momento è una falsa soluzione al problema perché si basa essa stessa su un altro assunto problematico e cioè che nella più grande risorsa di video in rete il contenuto più fruito è la musica e non il video UGC (che sta nella parte più lunga della coda). A dimostrarlo può bastare il fatto che ben 6 clip tra le 10 più viste di tutti i tempi sono musicali e una è di danza, mentre l'unica UGC è in decima posizione.

da PUNTO INFORMATICO del 09/10/08

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